Ripubblico l’analisi sul golpe in Ecuador scritta da me per il TG1 RAI e disponibile qui (gc)
Con il passare delle ore è cresciuto ad otto morti il bilancio di dodici ore di colpo di Stato in Ecuador contro il governo di Rafael Correa, fallito venerdì a Quito, dopo un blitz delle forze speciali dell’esercito che hanno liberato il presidente dopo un sequestro, da parte di reparti della polizia nazionale, durato 11 ore.
Quello sui morti è un dato che rileva la drammaticità di un evento al quale a lungo è stato negato il rilievo che meritava. Si inserisce infatti in uno scacchiere latinoamericano dove la continuità di vittorie elettorali di candidati di centro-sinistra ha portato al terzo colpo di stato in otto anni dopo quello fallito dell’aprile 2002 in Venezuela contro Hugo Chávez e quello riuscito del giugno 2009 contro Manuel Zelaya in Honduras.
Eppure la minaccia alla democrazia era seria: il sequestro del presidente è stato infatti accompagnato dall’occupazione e la chiusura dei due principali aeroporti del paese da parte di elementi delle forze armate, dallo scendere in piazza di manifestazioni di civili e studenti in favore di un governo "civico-militare" e dall’assalto violento alla televisione pubblica Ecuador TV da parte di squadristi vicini all’ex-presidente Lucio Gutiérrez, che hanno oscurato le trasmissioni a lungo. Solo l’immediata mobilitazione di decine di migliaia di cittadini, scesi in piazza per difendere il governo legittimo, ha impedito che il golpe prosperasse. Con il passar delle ore, la confermata lealtà dell’esercito alla Costituzione ha portato all’isolamento dei golpisti fino al blitz che ha messo fine al sequestro del presidente.
Rafael Correa, economista cattolico, classe 1963, prima di diventare presidente nel novembre 2006, ha seguito il tipico percorso di formazione dei dirigenti democristiani latinoamericani, con tanto di dottorato di ricerca all’Università Cattolica di Lovanio, in Belgio. Fermissimo alleato del venezuelano Hugo Chávez, Correa è uno dei pochi presidenti latinoamericani di centro-sinistra a venire dalle classi dirigenti. Gli altri sono tutti o quasi di estrazione popolare tra l’operaio Lula in Brasile, il sindacalista Morales in Bolivia, il militare di provenienza popolare Chávez in Venezuela, il venditore ambulante di fiori Mujica in Uruguay.
La sua coalizione, Alianza País, propugna la "rivoluzione della cittadinanza", nella convinzione che nel passato, soprattutto nell’epoca neoliberale che ha portato l’Ecuador ad avere tra i più alti tassi di emigrazione al mondo, la maggior parte delle persone avessero perso di fatto il diritto alla cittadinanza nel loro stesso paese.
L’appoggio a Correa mette insieme i cattolici progressisti, i movimenti indigeni e contadini tradizionalmente organizzatissimi nel paese, la sinistra socialdemocratica e radicale. Si riconosce nell’alveo del "socialismo del XXI secolo" propugnato dal venezuelano Hugo Chávez, dal quale si differenzia solo per uno spiccato ambientalismo. Suo è infatti uno dei più originali progetti di rispetto della biodiversità, quello nel parco nazionale Yasuní. Questo è un santuario della biodiversità del pianeta ma, allo stesso tempo, un immenso giacimento di idrocarburi. Correa ha raggiunto in merito un accordo internazionale per il quale il parco resterà intangibile ma la comunità internazionale si impegna a finanziare la metà di quello che l’Ecuador avrebbe guadagnato dal suo sfruttamento e distruzione abbassando di milioni di tonnellate le emissioni di CO2 nell’atmosfera.
Il fallito golpe contro Correa si inserisce in un contesto che è quello del progressivo rafforzamento delle istituzioni comunitarie latinoamericane. Proprio nelle ore nelle quali il colpo di stato veniva sconfitto, tutti i presidenti latinoamericani, compresi quelli di governi di destra come il cileno, colombiano e peruviano, viaggiavano a Buenos Aires per un riunione straordinaria di UNASUR, l’Unione della Nazioni Sudamericane, che ribadiva che oggi non è più tempo di golpe in America latina.
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