Lula in Brasile, il campione del Novecento all’ultima battaglia

In Brasile si andrà al secondo turno. Lula da Silva gestirà un corposo vantaggio di cinque punti su Jair Bolsonaro, 48,35% contro 43,26%, sei milioni di voti in più del rivale, 57 milioni contro 51. Partita aperta, paese polarizzato – quale paese non lo è oggidì? – ma soprattutto il vecchio leone, il 77enne Lula, ultimo campione della sinistra novecentesca ancora su piazza, socialdemocratico e cattolico popolare al contempo, latinoamericanista certo del ruolo del Brasile e della Regione nel mondo, è tornato in corsa dopo un’odissea umana che pretendeva di umiliare l’opera di una vita di lotta.

Questo è il primo fatto concreto, al di là della mediatizzazione di sondaggi e risultati parziali che, al momento di quelli reali, dovrebbero essere cancellati anche dalla memoria. C’è un secondo turno, difficile, aperto ma che vede la concreta possibilità di sloggiare Jair Bolsonaro dalla presidenza, un fatto unico dal ritorno della democrazia quasi quarant’anni fa, che ha sempre visto la rielezione del presidente in carica.

Non saranno gli italiani del 25 settembre o gli statunitensi del 6 gennaio a sorprendersi di quanto forte sia penetrato il messaggio dell’odio, a partire da quello classista e razzista di discriminazione delle parti più fragili della società e di quanto pericolosa sia la demolizione della credibilità delle istituzioni nazionali e internazionali costruite dopo la seconda guerra mondiale e, in America Latina, dopo il ciclo dittatoriale degli anni Settanta. Dittatura, quella brasiliana, rivendicata ogni giorno da Bolsonaro come migliore di ogni democrazia. Per quanto sia duro pensarlo, quel Bolsonaro che resta pienamente in partita, ci dice che le classi medie bianche, in particolare nel Sud e nei grandi stati, pensano, sono indotte a pensare, che il regime democratico sia oggi un peso del quale non sanno che farsene. Del quale si disfarrebbero volentieri.

Preferiscono pensare che il mondo sia sempre andato così e vada bene così, e continuare ad avere domestiche a tempo pieno in casa al prezzo di un pacchetto di sigarette, e sentirsi buoni quando regalano loro qualche vestito dismesso per le favelas da dove quelle madri lavoratrici vengono e tornano con dolorosissima umana fatica ogni giorno. A questo si aggiunge il messianismo evangelico che, continuando a vedere il maschio bianco al centro del giardino dell’Eden, non può non vedere nel paternalismo di Bolsonaro il proprio campione.

Campione di un Brasile che ha reso isolato, che può millantare autosufficienza (la lista dei vicini brutalmente insultati, da Boric a Petro a Fernández è lunga) e voltare le spalle alla regione e al mondo. Il contrario della visione del Brasile di Lula, che tornerebbe a esercitare più forte il proprio ruolo in una regione per la prima volta tutta o quasi progressista dalla Terra del fuoco giù fino al confine tra Messico e USA. Una regione che, nel segno dell’integrazione, potrebbe risolvere da sola le sue crisi, come sta già dimostrando la presidenza di Gustavo Petro per quella tra Colombia e Venezuela.

Ma l’America Latina non serve a Bolsonaro, come non serve la scienza (lo ha dimostrato con la pandemia che ha reso un genocidio), la difesa dell’ambiente (la distruzione dell’Amazzonia in omaggio all’agroindustria esportatrice come perpetuazione dell’inserimento subalterno del Brasile nel sistema mondo wallersteiriano) o l’essere presidente di tutti (la misoginia, il razzismo, il classismo, l’omofobia, la denigrazione di qualunque diversità, il disprezzo per i popoli originari sono il suo pane quotidiano, il suo ‘stile’ che evidentemente piace ai 51 milioni che l’hanno votato). E non gli serve il regime democratico, che ha picconato dal primo all’ultimo giorno.

Molti limiti ci sono nella candidatura di Lula, a partire dal rinnovamento generazionale impossibile, all’inevitabilità di alleati scomodi, alla già certezza di un parlamento ostile e di dover trattare con i due candidati centristi che hanno raccolto il 7%. A quasi due decenni dalla prima volta, il vecchio sindacalista metallurgico non è certo il nuovo che avanza. Anche in Brasile pezzi delle classi subalterne hanno voltato le spalle al Partito dei Lavoratori, ed è difficile dar loro solo torto o incolpare solo il nemico, le oligarchie, gli oligopoli mediatici. Straordinari furono i risultati economici di Lula e Dilma; 35 milioni di persone uscirono dalla povertà e oggi sono libere di votare Bolsonaro. Straordinari ma reversibili in assenza di profonde riforme politiche, fiscali, del lavoro. Proprio la pandemia lo ha dimostrato.

Ma con Lula il paese/continente accarezzerebbe il ritorno di politiche inclusive che Temer prima e Bolsonaro poi hanno distrutto negli ultimi sei anni, e che hanno portato 119 milioni di brasiliani a patire insicurezza alimentare. Per molti brasiliani c’è di nuovo, ed è disperante pensarlo, il discrimine tra alimentare i propri figli e vederli morire d’inedia. Le politiche inclusive costano, forse, ma sono l’essenza della democrazia. Ma è proprio contro la democrazia, che disprezza così tanto da lasciarla lì come un orpello svuotato di senso, che Bolsonaro ha raccolto i suoi 51 milioni di voti. Ecco: che questa sintesi tra Trump e Putin, entrambi lo supportano con fervore ricambiato, più volgare ma perfino più incapace di misurare le conseguenze delle sue azioni, continui a governare a Brasilia con un governo militare mascherato da civile, sarebbe un segnale di ulteriore instabilità lanciato al mondo intero.