Dei manzoniani «venticinque lettori» de «Il Foglio», Laura Boldrini, il merito, il mercato, il finanziamento pubblico

L’operazione di sicariato condotta da Il Foglio contro Laura Boldrini, sommandosi a quella molto mainstream orchestrata dagli amici della famiglia Feltri, dopo la mancata pubblicazione di un articolo sul blog privato dell’ex-presidente della Camera sul sito dell’Huffington Post, ha destato sdegno. Lunedì 30 novembre l’ex presidente della Camera è stata sbattuta come un mostro in prima pagina, addebitandole una complessa polemica che coinvolge la scrittrice JK Rowling, nella quale Laura Boldrini non aveva alcun ruolo. Una vera vigliaccata gratuita, dopo che il giorno prima il vicedirettore Crippa aveva sostenuto che Boldrini rappresentasse addirittura un pericolo per la libertà di stampa (sic). Tra le molte critiche al Foglio, in particolare su Twitter, un punto è risultato nodale, ma non unico: il fatto che il giornale abbia ricevuto dal 1997 almeno 54 milioni di Euro di finanziamento pubblico, ma non venda in edicola che un numero di copie così basso (un migliaio?) da non poter essere registrato dagli enti appositi.

Chiarisco subito che il punto non sia irridere al Foglio perché vende un numero infimo di copie (un fatto, non un’opinione). La questione è ben più complessa. Quel giornale riceve da un quarto di secolo un abnorme finanziamento pubblico e un’ancor più importante eco mediatica, che ne porta la redazione costantemente in tivù a fare opinione pubblica, ottenendo un’influenza senza alcuna proporzione con la reale rappresentatività nel sistema mediatico del paese. Il Foglio è un giornale che non esiste nelle edicole ma esiste in tivù. Anche senza usare un bilancino, è evidente non vi sia alcun rapporto tra vendite del Foglio e le citazioni o inviti in tivù. Sono bravi, si dirà. Ma come mai tanta bravura e tanta pubblicità gratuita sui media audiovisuali, non si traduce mai in vendite nelle edicole, che resta sempre la legge numero uno del capitalismo? È un fatto curioso, che merita attenzione. Cercherò di essere breve sui seguenti punti: 1) Sullo stare sul mercato. 2) Sull’amplificazione/distorsione della rappresentanza. 3) Sulle campagne mediatiche.

SULLO STARE SUL MERCATO

Non ripercorrerò il perché e percome e attraverso quali trucchi il Foglio acceda ad un colossale finanziamento pubblico. Voglio riflettere su una stranezza. Basta conoscere un po’ di “storia del giornalismo” (materia che ho insegnato per dodici anni a Unimc e alla Bocconi) per sapere come in Europa i media liberal-capitalisti vincano la competizione su quelli socialdemocratici sulla base di un’incomparabile facilità di accesso alla raccolta pubblicitaria e di rappresentanza di interessi egemoni.

Basta ricordare la storia del Daily Herald che fallì nel 1964 vendendo il doppio di copie di Guardian, Times e Financial Times insieme, ma che aveva una raccolta pubblicitaria di un decimo. Il Foglio rappresenta pienamente gli interessi egemoni che avrebbero interesse e facilità a investire sul giornale. Al contrario, per esempio, Il Manifesto no. Ammesso e non concesso che quella che portò il Daily Herald a chiudere fosse una distorsione del sistema democratico, il finanziamento pubblico nasce proprio per permettere a opzioni etico-culturali (una volta dicevamo ideologie) di rappresentarsi rispetto ad opzioni etico-culturali naturalmente “più ricche”. In buona sostanza il finanziamento pubblico nasce per correggere il mercato e permettere a giornali come il Manifesto di combattere ad armi pari la battaglia delle idee con giornali come il Foglio, che di quel finanziamento non avrebbero bisogno perché naturalmente (legittimamente) amici del mercato.

Il Foglio sarebbe dunque un’eccezione che conferma la regola? Può ben essere, ma di nuovo la mia domanda è: come mai il Foglio non sta sul mercato? L’ideologia del giornale è marcatamente liberal-capitalista. Da un quarto di secolo predica legittimamente le virtù del mercato. Il profilo socio economico dei pur pochi lettori è particolarmente elevato. Cosa impedisce loro una raccolta pubblicitaria (macchine di lusso, moda, consumi di target elevato, grandi multinazionali) che riequilibri la bassa tiratura e produca utili? È una necessità il ricorrere al finanziamento pubblico o è un vezzo, quasi una scelta estetica?

SULL’AMPLIFICAZIONE/DISTORSIONE DELLA RAPPRESENTANZA

La moltiplicazione dei giornali di destra liberista e/o sovranista comporta da almeno vent’anni una riscrittura a loro favore del Manuale Cencelli delle citazioni nelle rassegne stampa e soprattutto nelle comparsate televisive che, per troppe ragioni che non vale la pena elencare, sono particolarmente ambite. Insomma il Foglio, partendo dai suoi «venticinque lettori» manzoniani, passando attraverso i milioni del finanziamento pubblico, è in grado di influenzare l’opinione pubblica e garantire ai suoi redattori enorme visibilità. Di nuovo si dirà: sono bravi. Ma allora, perché da ferventi detrattori del ruolo dello stato nell’economia prestano il fianco a tale critica?

La mia domanda è: fino a che punto l’effetto leva che il Foglio mette in moto, non solo elude le virtù del mercato ma aggira la logica profondamente democratica del finanziamento pubblico? Non stiamo raggiungendo esattamente l’effetto opposto rispetto a quello desiderato, distorcendo e non garantendo la rappresentanza democratica? La ratio è che il Foglio debba essere finanziato perché vende troppo poco? Ma quanto poco è accettabile? Esiste una proporzione plausibile tra finanziamento pubblico e rappresentatività di un gruppo socio-culturale? Qual è il “public interest” a finanziare quella pubblicazione che trova così scarso interesse nei lettori?

SULLE CAMPAGNE MEDIATICHE

Non è rilevante la mia distanza dalle posizioni del Foglio, per esempio da firme come quella di un Langone, ma sono molto preoccupato da altre questioni. Per esempio il Foglio, a partire dallo stesso direttore Cerasa, ha ripetutamente e convintamente veicolato teorie antiscientifiche e negazioniste sul Cambio climatico, riconosciuto da molti anni come un fatto dal 99,9% dei paper scientifici. Nel 2020 un dibattito serio e onesto non è più sul “se” vi sia il cambio climatico, ma sul “che fare” per frenarlo. Discutere ancora sul “se” ha la stessa funzione che discutere con i terrapiattisti: perdere tempo. Media come il Foglio obbligano sistematicamente a retrocedere, e quindi a non agire. Non ingenuamente.

Infatti non si tratta né di libertà di stampa né di espressione. La diffusione di disinformazione che l’intera comunità scientifica mondiale considera irrilevante, dannosa e infondata, rappresenta e muove gli enormi interessi economici che il Foglio rappresenta. Negli USA il negazionismo viene finanziato dai petrolieri; in Italia lo deve finanziare lo Stato?

Qui il cerchio pare chiudersi. Quel giornale che fa della rivendicazione del merito e della meritocrazia la propria cifra ideologica, come mai non è all’altezza di confrontarsi col metodo scientifico? Quel giornale così meritocratico, su cosa basa l’autoattribuzione di merito? Nel mio piccolo, io figlio di nessuno, nella mia vita professionale ho già vinto quattro concorsi pubblici. Eppure un giornale come il Foglio si permette di denigrare sistematicamente il valore e il merito nel mondo dell’Università pubblica, che ha fatto la democrazia di questo paese almeno come la libertà di stampa. Mi vorrebbero far decurtare lo stipendio e forse far licenziare, ma sono contro la patrimoniale per chi guadagna multipli del mio stipendio. Intanto anche il loro stipendio lo paga il contribuente. Ma francamente loro, bravi per antonomasia, che conducono quotidianamente battaglie contro il pubblico, ma che lavorano per un giornale incapace di stare sul mercato, che meriti hanno?