In Messico il dialogo sul Venezuela va avanti

Il dialogo parte dal reciproco riconoscimento. Così a Chapultepec, a Città del Messico, con la mediazione del governo del Messico, incarnato in un lavoro da premio Nobel del Ministro degli Esteri di Andrés Manuel López Obrador, Marcelo Ebrard (foto), e del regno di Norvegia, si sta trattando dalla metà di agosto tra governo e opposizione.

Il primo risultato ottenuto, l’accordo per la partecipazione dell’opposizione pressoché completa alle elezioni amministrative del prossimo 21 novembre, è già in sé straordinario, ma i lavori sono già ripresi con l’obiettivo di dare una soluzione endogena alla lunga crisi politica venezuelana.

Quello che è importante qui capire è che ciò che ha sbloccato la situazione è che si sia partiti dal reciproco riconoscimento della legittimità di entrambi gli attori, il governo della Repubblica Bolivariana presieduto da Nicolás Maduro, l’opposizione incarnata dalle forze principali di questa riunite nella “Piattaforma Unitaria”. Questa include sia Primero Justicia, di Henrique Capriles, che da tempo spingeva per il dialogo, che Voluntad Popular, di Leopoldo López, del quale Juan Guaidó era nel gruppo dirigente.

Cessa (di fatto) quindi il malinteso “for export” del “governo a interim”, presieduto da Juan Guaidó sul quale pezzi dell’opposizione erano stati trascinati dal Segretario Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luís Almagro, in sinergia con la parte più estremista del governo Trump negli Stati Uniti. Tale operazione ha dato un contributo sostanziale – ed esclusivamente nefasto – nell’aggravare la crisi venezuelana, che non tratterò in questo articolo.

L’agenda del dialogo di Chapultepec, partendo da distanze che – nessuna delle due parti lo nega – restano siderali tra governo e opposizione, resta complessa. Per il governo il punto principale è l’allentamento delle sanzioni internazionali e lo sblocco degli attivi di proprietà dello stato venezuelano all’estero. I casi simbolici sono la CITGO, la filiale statunitense di PDVSA (la grande compagnia petrolifera statale), che si calcola fatturi 11 miliardi di dollari l’anno nel solo mercato statunitense, e le 31 tonnellate di lingotti d’oro di proprietà venezuelana bloccati nei caveaux della Banca d’Inghilterra.

Per l’opposizione il punto principale è la fine delle cosiddette “inabilitazioni” che colpiscono molti leader dell’opposizione, incluso Capriles e Leopoldo López, e che impediscono loro l’esercizio dell’elettorato passivo, cioè candidarsi ed essere eletti. È evidente come non dipenda solo dall’opposizione l’allentamento dell’embargo – e Biden non pare distanziarsi dalla linea Trump anche nella regione – come in molti casi la cancellazione dell’inabilitazione legittimerebbe politici coinvolti in fatti eversivi o di corruzione. Nulla, da una parte e dall’altra, che si possa risolvere con un tratto di penna ma, fortunatamente, neanche con la spada. 

Mentre a Chapultepec si tratta, in favore di telecamera vedremo continuare entrambe le parti a fare il discorso più radicale. L’opposizione continuerà a spacciare il chavismo per una sorta di talebani d’America, negando che mezzo continente, dall’Argentina al Perù, dalla Bolivia al Messico, per tacere di Lula in Brasile e ovviamente Cuba, li supporti e ne difenda l’esperienza. Il governo può continuare a dipingere tutta l’opposizione come indistintamente venduta al nemico imperialista o corrotta. La verità però l’ha detta Gerardo Blyde, rappresentante dell’opposizione a Chapultepec, che ha riconosciuto che “entrambe le parti devono rinunciare alle rispettive narrazioni”.

Con l’attenzione costante di Papa Bergoglio, i venezuelani, nel governo e all’opposizione, hanno sempre dialogato (spesso sottotraccia), e stanno provando a trovare un difficile cammino di riconciliazione, che non passa necessariamente dal lieto fine auspicato dal complesso mediatico industriale mainstream, ovvero la cancellazione del chavismo dalla faccia della Terra, ma dove le istanze di questo – quelle delle classi subalterne – resteranno ineludibili anche in futuro, chiunque governi il Venezuela.

Lo scorso gennaio l’Unione Europea (non l’Italia che mai lo aveva riconosciuto) ha avuto ragione a mettere fine alla farsa del riconoscimento dell’entità astratta inventata di punto in bianco da Almagro, facente capo a Juan Guaidó, mentre si attende una resipiscenza da parte dell’amministrazione Biden. Eppure molti danni in due anni e mezzo sono stati fatti nel fomentare una soluzione violenta della crisi venezuelana, il millantare un’invasione militare straniera, il cercare in tutti i modi rivolte militari e legittimare, culturalmente prima ancora che politicamente, un eventuale colpo di stato che, lo sappiamo, non è mai uscito dal novero delle possibilità delle destre latinoamericane.

Nel 2019 lo dimostrò la Bolivia, sempre con il sinistro Almagro a fare da mentore della distruzione della democrazia, poi salvata dal popolo boliviano dopo un anno di lotta contro il governo di fatto di Jeanine Áñez. Che il dialogo vada avanti, una volta aperto il cammino con le elezioni, che restano il segno più visibile della fine di uno stato di quasi belligeranza, è la miglior notizia per il Venezuela e l’America Latina. Per altri, a partire da chi soffiava sul fuoco del golpe militare, non saprei.