Le democrazie latinoamericane esigono a Barack Obama, la fine delle ingerenze, il rispetto del diritto internazionale e la fine dell’embargo contro Cuba

ObamaGaleano Cristina Fernández de Kirchner, presidente argentina, ha sintetizzato al suo omologo statunitense Barack Obama quello che tutto un continente pensa: “la fine dell’embargo contro Cuba non può essere un punto di arrivo di un percorso ma una precondizione” per iniziare a costruire relazioni di mutuo rispetto nel Continente.

Non sarà solo l’affabilità e perfino l’umiltà che sta dimostrando Barack Obama in queste ore a Trinidad e Tobago, per il Vertice delle Americhe, a sanare le ferite storiche di 170 anni di dottrina Monroe. Non sarà con una richiesta di voltare pagina e di “un nuovo inizio”, pur necessari, che si potranno lasciare alle spalle decenni di destabilizzazioni, colpi di Stato, complotti, assassinii, invasioni, crimini contro l’umanità, spoliazioni, imposizioni di patti leonini contro il Continente attraverso quell’aberrazione che è stata il “Consenso di Washington”, quel meccanismo perverso per il quale politiche e politici di paesi democratici o dittature potevano essere sommerse o salvate solo con l’imprimatur di una potenza straniera.

Non sarà con il ristabilimento di relazioni diplomatiche, con il Venezuela oggi (ed è un grande successo del Vertice di Trinidad), con Cuba forse domani, che recupererà credibilità il paese che per 60 anni ha imposto e tuttora sponsorizza all’America latina e al mondo il Fondo Monetario Internazionale come strumento di dominio neocoloniale.

Forse però se davvero –afferma Obama che è venuto per ascoltare e imparare- saprà fare tesoro dalle parole dei dirigenti popolari che in questi giorni sta iniziando a conoscere, Lula, Chávez, Evo, Daniel, Cristina, Rafael Correa… si potrà aprire una tappa nuova e più equilibrata nei rapporti tra America latina e Stati Uniti. Se davvero Barack Obama capirà quanto prezioso è il regalo che ha ricevuto da Hugo Chávez, una copia de “Le vene aperte dell’America latina” di Eduardo Galeano, il martirologio latinoamericano, allora capirà che tutto deve passare dal suo essere in grado di cominciare a modificare una politica di Stato del suo paese verso il Continente che non solo nel decennio infame di George Bush si è sempre basata sulla rapina, sul colonialismo, sul razzismo e sul disprezzo dei processi democratici altrui.

E allora sarebbe un buon inizio se il presidente degli Stati Uniti facesse tesoro delle parole del Presidente argentino Cristina Fernández de Kirchner: “la fine dell’embargo contro Cuba non può essere un punto di arrivo di un percorso ma una precondizione” se davvero gli Stati Uniti vogliono trarre conseguenze del loro stesso ammettere, sono parole di Hillary Clinton, che la loro “politica è stata un fallimento”. Se quella politica è un fallimento, oltre ad essere ingiusta e criminale, Obama tragga le conseguenze e cancelli l’embargo oggi accettando semplicemente di rispettare le ben 17 risoluzioni in merito delle Nazioni Unite che gli Stati Uniti continuano a violare. Se la democrazia statunitense non è in grado di lasciarsi alle spalle unilateralmente un atto unilaterale fallimentare e sbagliato come l’embargo allora ben poco ha il diritto di chiedere a Cuba e al Continente.

E se così sarà su di un altro punto forse domani commentatori in buona fede dovrebbero essere chiari. E’ a un decennio di lungimiranza del presidente venezuelano Hugo Chávez (senza dubbio beneficiatosi della forza tranquilla del Brasile alle sue spalle) che si deve il superamento dell’isolamento di Cuba in questi anni e oggi il riconoscimento del fallimento di questo da parte della Casa Bianca. Un risultato politico straordinario che avrebbe come conseguenza da parte degli Stati Uniti l’imparare con 200 anni di ritardo a rispettare i paesi vicini perché, ancora con le parole di Cristina Fernández: “sarebbe bene che gli Stati Uniti smettessero di inviare loro consiglieri nei nostri paesi (a organizzare golpe, depredare, corrompere e violare e far violare i diritti umani) già che noi non inviamo nostri consiglieri a Washington a condizionare la loro politica”.

Se il decennio Bush è il decennio infame (l’ultimo di una lunga serie), nella positiva ricomposizione delle relazioni tra Venezuela e Stati Uniti che si avvia oggi, non può non essere chiaro chi tra Bush e Chávez (o tra Bush e Morales eccetera) sia stato l’aggressore e chi l’aggredito. E non può non essere chiaro che chi in questi anni tra i commentatori, gli opinionisti, gli pseudo-inviati e i falsi esperti del sistema di disinformazione mainstream ha costruito una retorica vuota irridendo all’indio o al negro o all’operaio presidente, dileggiando il processo d’integrazione latinoamericana e insultando o demonizzando (sposando per esempio la tesi costruita a tavolino, falsa e tendenziosa, dell’asse del male latinoamericano di Donald Rumsfeld o glissando sul golpe dell’11 aprile 2002) il rifiuto del neoliberismo da parte dei movimenti popolari del Continente e i dirigenti da questi espressi va additato all’opinione pubblica per quello che è stato: uno che tra aggredito e aggressore stava dalla parte dell’aggressore.

A questo, al ristabilimento delle relazioni col Venezuela bolivariano, al nuovo inizio con Cuba al quale dare contenuti dovrà necessariamente accompagnarsi un altro passaggio: la fine di un rapporto acritico con la Colombia che si dissangua e col violatore di diritti umani Álvaro Uribe. Il vertice ha testimoniato che chi è isolata oggi nel Continente non è certo il cosiddetto “asse bolivariano” né tantomeno Cuba che ha il pieno appoggio di tutti i paesi del Continente ma è la Colombia. Se gli Stati Uniti davvero vogliono smettere di dividere per imperare (ci si perdoni lo scetticismo) dovranno smettere di appoggiare incondizionatamente i crimini contro l’umanità di Álvaro Uribe e di spalleggiare e finanziare il paramilitarismo che oltre al narcotraffico per conto delle multinazionali dell’agroindustria espelle ogni giorno migliaia di contadini dalle loro terre. Inoltre vi è un terreno immediato di confronto: devono oggi evitare di appoggiare quella politica di lotta al narcotraffico portata avanti da Felipe Calderón che non sta portando ad altro se non ad una “colombizzazione” del Messico.

Obama afferma di essere lui stesso “un prodotto del cambiamento”, come l’operaio Lula presidente brasiliano, o l’indigeno Evo Morales presidente della Bolivia. Non può dimenticare che il cambiamento del quale afferma di essere un prodotto è dovuto al fallimento etico ed economico del sistema neoliberale che purtroppo Obama continua a rappresentare nel Vertice delle Americhe come ha già dimostrato di fare nella visita in Messico che lo ha preceduto. Se davvero vuole “un nuovo inizio” non può continuare a vendere un sistema, quello neoliberale, che dovunque è stato applicato ha causato fame, morte, precarietà e distruzione per molti e ricchezza per pochissimi e ha ridotto il suo stesso paese ad avere un cittadino su sei senza assistenza sanitaria.

Se davvero vuole un nuovo inizio prenda atto della dichiarazione di Ecuador, Venezuela, Cuba, Bolivia, Nicaragua, Honduras e Repubblica Dominicana –i paesi membri dell’Alternativa Bolivariana per le Americhe (ALBA)– che non voteranno la dichiarazione finale del Vertice delle Americhe scritta settimane fa e dall’insopportabile odore di muffa, non solo per l’esclusione di Cuba, ma perché nessuna critica esprime sul sistema economico e di dominazione che ha causato la crisi economica mondiale. Se Obama è davvero “un prodotto del cambiamento” legga Galeano e sappia che non bastano sorrisi e strette di mano per riparare ai crimini storici commessi dagli Stati Uniti d’America in America latina. Al “nuovo inizio” deve dare contenuti.