Chi può negare che al Circo Massimo ci fosse la parte migliore di questo paese, adeguatamente rappresentata dalla frase di Vittorio Foa che campeggiava sul palco?
«Pensare agli altri oltre che a se stessi, al futuro oltre che al presente» è il minimo comune denominatore di quello che si considera sinistra. Solo il minimo comune denominatore purtroppo, e vent’anni fa quella frase sarebbe stata banale, mentre oggi ci appare altissima. Di questi tempi di fango qualunque cosa di elevato è meglio di niente.
La piazza, quello straordinario mezzo milione di persone (per chi non vuole essere suddito culturalmente anche per le iperboli numeriche al venditore di fumo che ci governa) viene per partecipare. Il Partito Democratico offre rappresentanza (oltretutto bloccata), che è infinitamente di meno della partecipazione, ma molto di più della deriva antiparlamentare nella quale sta cadendo il regime.
Il discorso del segretario Walter Veltroni è stato ottimo su alcuni punti, scuola, ricerca, ecologia. Convincente su temi come il razzismo o il rilancio del ruolo dello Stato. Elusivo su alcuni altri, i soldi agli squali delle banche, oppure sulle elezioni europee dove difende il voto di preferenza ma nulla dice su uno sbarramento che imporrebbe un bipartitismo di fatto. E’ stato concessivo agli umori peggiori del paese su temi come la sicurezza, e omertoso sul grande buco nero del PD, la difesa della laicità dello Stato, sulla quale non è stata spesa neanche una parola, o sulla giustizia dove, per motivi incomprensibili ai più, lascia praterie non tanto ad Antonio di Pietro ma al partito dei corrotti.
Non doveva sciogliere tutti i nodi Walter Veltroni e non si poteva pretendere che li sciogliesse. Ma non sfugge il sapiente stucchevole scioglilingua con il quale si è oramai definitivamente sostituito l’uso della parola “sinistra” (mai utilizzata come conferma una ricerca testuale) con quella “riformismo”. Per Veltroni in Italia c’è la “destra” (non più il “centro-destra” e dev’essergli costato elidere quel “centro”) evocata 13 volte e il “riformismo”. Tertium non datur. Chissà se si sono capiti davvero Veltroni e la piazza.
Ma attenzione, se la parola “sinistra” resta impronunciabile per lo stato maggiore del PD, anche la parola “riformismo” sta subendo una trasformazione. Dagli anni ‘90 e fino al 13 aprile 2008, “riformismo” era divenuto sinonimo di liberismo. Il “riformismo” era il simbolo della sudditanza culturale della post-sinistra al pensiero unico ed è così che la post-sinistra ha governato, vinto ma soprattutto perso elezioni, fondato il PD e consegnato il paese alle peggiori destre d’Europa. Dopo la sconfitta, e dopo la crisi della finanza, e nascondendosi dietro l’angelo custode Barak Obama, per il PD la parola “riformista” ricomincia ad avere echi timidamente novecenteschi e socialdemocratici. Forse di comodo, ma sarebbe ingiusto non rilevarli.
Proprio lì sta la grande contraddizione del PD. Milioni di elettori di sinistra, centinaia di migliaia di onesti militanti di sinistra che stonano con una cupola del partito e un piccolo esercito di burocrati in carriera che sono tutt’altro che di sinistra. Questi ultimi forse si vergognano perfino un po’ di quella piazza che evocano per comodità ma che fanno restare ben al di fuori del recinto sacro della zona Vip della nostra borghesia illuminata.
Quanta gente era in piazza riconoscendosi in Paola Binetti? Quanta ha viaggiato fino a Roma sentendosi rappresentata da Massimo Calearo? Se il PD si aprisse davvero alla partecipazione della base, quanti degli attuali leader sopravvivrebbero? Per quanto tempo quegli elettori cederanno rappresentanza alla centralità del PD senza esigere di partecipare? Il popolo ieri è arrivato a Roma, ma non s’illuda Veltroni su di un cambio d’umore; come diceva Juan Domingo Perón, “il popolo arriva sempre, con i dirigenti in testa, o con la testa dei dirigenti”.
Il dramma è che ha ragione “Il Secolo d’Italia” a sostenere che le periferie oramai sono con loro, con le destre. Quel popolo del Circo Massimo, oltre ad essere l’unica speranza di futuro, è in realtà il resto di un’idea di paese già distrutto. Gli accenti toscani e delle storiche regioni rosse abbondano. Non diciamo nulla di nuovo a ricordare che sono soprattutto insegnanti, impiegati, residui di classe operaia tuttora cosciente di sé, gente che legge, gente che ha speranze più che paure e, nonostante Berlusconi, sogna un’Italia più equa, molto più di quanto odi quella attuale. Al Circo Massimo rappresentano le parti d’Italia dove bene o male la sinistra ha dato il meglio di sé. Ma la nostalgia non basta più da tempo.
La grande sfida è allora recuperare alla partecipazione, al voto, alla vita democratica, almeno parte di quel lumpen-proletariato deculturizzato al quale Silvio Berlusconi vuol dare con Mariastella Gelmini ancora meno educazione. Impaurito dall’immigrazione e al quale la Lega dà risposte di pancia e razziste. Precarizzato ma che nella paura del domani non trova risposte altre che quella del modello. Ignorante, volgare, asociale, corrotto nei costumi, conquistato dal peggior individualismo del berlusconismo, tutto il contrario di quell’Italia bella e decente che evoca Veltroni e che era presente ieri al Circo Massimo, eppure così ovviamente centrale per le ragioni etiche della sinistra oltre che per il semplice “riconquistare il potere” che tiene insieme la classe dirigente del PD. L’Italia è oggi tra i paesi più diseguali al mondo. Ma le nude statistiche dell’OCSE si limitano a calcolare il reddito. Meno registrano l’abisso culturale ed etico nel quale le periferie, che si riconoscono nelle destre o semplicemente non si riconoscono in nulla, stanno cadendo dopo un quarto di secolo di retrocessione dello Stato e della società civile.
Ci sono due maniere per conquistare quegli elettori, quelle persone che dovrebbero essere il centro di tutto perché senza di loro non c’è coesione sociale né progresso possibile. La prima è quella di assecondarle nei loro umori peggiori esaltati dal berlusconismo. Sarebbe una scorciatoia e il popolo di ieri si assottiglierebbe. Continuerebbe a manifestare e ad esigere un’Italia migliore, invece che con i dirigenti alla testa, con la testa dei dirigenti.
La seconda è proporre davvero un progetto alternativo di paese. Un progetto che non può che essere di modernizzazione solidale. Un progetto che Veltroni chiama “riformista” ma che i suoi elettori continuano a chiamare “di sinistra”. Ha causato qualche sorriso in molti il fatto che il segretario del PD abbia concluso il proprio discorso con uno slogan preso pari pari dal movimento dei Fori Sociali: “Un’altra Italia è possibile”. Di nuovo: tra l’appeasement al berlusconismo e l’Italia del popolo del Circo Massimo, profondamente alternativa a tutto quello che rappresenta Berlusconi, tertium non datur. Speriamo che Veltroni ci creda davvero.