Mercenari a giudizio a Bari, mercenari impuniti a Baghdad

51151-stefio Due notizie sullo stesso tema, ma di segno diverso, arrivano rispettivamente da Baghdad e da Bari. A Baghdad l’occupante impone gli assassini della Blackwater al governo sovrano iracheno, a Bari a giudizio i mercenari italiani.

La procura della Repubblica di Bari ha deciso il rinvio a giudizio per Salvatore Stefio e Giampiero Spinelli con l’accusa di «arruolamenti non autorizzati a servizio di uno Stato estero», art. 288 del codice penale, che prevede una condanna da 3 a 6 anni di reclusione. Giova ricordare che, per il dizionario della lingua italiana De Mauro, “chi esercita il mestiere delle armi per professione al servizio di uno stato straniero o di gruppi politici” è definito “mercenario”. Salvatore Stefio stesso è uno dei quattro italiani sequestrati in Iraq nel 2004 e liberati con un blitz dopo che uno di loro, Fabrizio Quattrocchi fu assassinato. Intorno a quel caso si alzò una cortina di fumo ideologica tesa a legittimare tanto i mercenari come l’occupazione. I quattro vennero definiti a metà strada tra “emigranti con la valigia di cartone” ed “eroi per la liberazione del popolo iracheno dalla tirannide saddamita”. La triste, ma purtroppo prevedibile, fine di Quattrocchi fu volgarmente strumentalizzata e ancora ieri alcuni giornali (fingendo di ignorare il codice penale) stigmatizzavano la notizia del rinvio a giudizio come una “vendetta della magistratura rossa contro il morto (sic!)”.

Ma in un paese civile come l’Italia, dove l’azione penale è obbligatoria, quel rinvio a giudizio arriva con tre anni di ritardo. Per le leggi italiane, offrire servizi di “commandos, controterrorismo, controguerriglia e controsorveglianza (ovvero il tradimento di chi si è pagati per proteggere)” quali quelli che dichiaratamente offre la Presidium, la società che arruolò in Italia i quattro, è un reato penale e come tale va giudicato. E’ un processo che va seguito con interesse, quello di Bari. Al di là del polverone, che impedisce finanche di dare pane al pane e mercenario al mercenario, stabilirà se il paese che vogliamo è un paese dove una campagna mediatica può trasformare un reato in atto di eroismo e se è davvero lecita (culturalmente prima che penalmente) l’idea di permettere l’arruolamento di eserciti di ventura in uno stato di diritto.

Intanto, un altro paese, che presume di sé d’essere il faro della civiltà, gli Stati Uniti, dove fare il mercenario è non solo legale ma eccellentemente retribuito, impone ad un terzo paese, l’Iraq, di continuare a lasciar lavorare i mercenari della Blackwater. Sono quelli dal grilletto più facile, che due settimane fa massacrarono in strada undici civili iracheni (28 secondo altre fonti). Mentre la Blackwater continua a sostenere la tesi dell’imboscata, molti testimoni concordano nel definire il massacro deliberato e senza alcun motivo. Lo conferma un alto ufficiale del Pentagono, citato in forma anonima dal Washington Post: quel massacro fu talmente efferato da potersi considerare “un incubo, che potrebbe rivelarsi peggiore di Abu Grajib”.

Dopo quell’ennesimo massacro,il governo iracheno, che ci hanno spiegato essere oramai sovrano da tempo, aveva sovranamente deciso di ritirare la licenza alla Blackwater. Oggi il sovrano governo iracheno è stato costretto dall’occupante a rimangiarsi la decisione, almeno fino alla conclusione di un’inchiesta, ovviamente statunitense, che sta già scegliendo uno o due caporali (i Mario Lozano di turno) da incolpare di tutto. É che la presenza della Blackwater, la più grande e violenta delle compagnie di mercenari (in totale almeno 130.000, un esercito, alcune centinaia di civili inermi massacrati) presenti in Iraq, vale un affare da almeno 845 milioni di dollari. Almeno questa è la cifra che il padrone dell’esercito privato (fosse stato somalo o afgano lo avremmo definito “signore della guerra”), il fondamentalista protestante Erik Prince, ha incassato finora solo da Dipartimento di Stato e Pentagono.

La ripresa delle attività della Blackwater non è solo un rischio intollerabile (uno in più) per il popolo iracheno, ma è la conferma dello status pienamente coloniale dell’Iraq attuale. Un tempo i colonizzatori misuravano il loro dominio proprio sulla capacità di monopolizzare l’uso della forza. Oggi la danno in conto terzi, come fosse un subappalto di tomaie o suole di scarpe, in una sorta di incubo “neoliberista militare” nel quale i media mainstream pretendono di convincerci che gli “assassini al soldo” siano degli eroi.

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