Gennaro Carotenuto https://www.gennarocarotenuto.it/ Giornalismo partecipativo - online dal 1995 SITO IN (LENTA) RISTRUTTURAZIONE Mon, 08 May 2023 10:33:15 +0000 it-IT hourly 1 https://wordpress.org/?v=6.9 https://www.gennarocarotenuto.it/wp-content/uploads/2016/03/cropped-CAROTENUTO2-32x32.jpg Gennaro Carotenuto https://www.gennarocarotenuto.it/ 32 32 La città di Napoli, non il Napoli, è bene immateriale di se stessa https://www.gennarocarotenuto.it/30317-la-citta-di-napoli-non-il-napoli-e-bene-immateriale-di-se-stessa/ Mon, 08 May 2023 10:27:53 +0000 https://www.gennarocarotenuto.it/?p=30317 A margine della festa per lo scudetto del Napoli, Pagina3 di Radio3 RAI, contrappone Raiz (Foglio) a Marcello Anselmo che scrive per la rivista del Mulino, su Napoli e il Napoli. Per semplificare: Raiz (Gennaro Della Volpe, Almamegretta e tanto… Continua

L'articolo La città di Napoli, non il Napoli, è bene immateriale di se stessa si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

A margine della festa per lo scudetto del Napoli, Pagina3 di Radio3 RAI, contrappone Raiz (Foglio) a Marcello Anselmo che scrive per la rivista del Mulino, su Napoli e il Napoli. Per semplificare: Raiz (Gennaro Della Volpe, Almamegretta e tanto altro) vede nello scudetto un ulteriore segno che i tempi per la città stiano cambiando, Marcello, che è un bravissimo storico di formazione, è molto più prudente. Mi sento a metà strada. Marcello Anselmo ha ragione a denunciare l’orripilante, paralizzante, reazionaria retorica del “riscatto” che accomunerebbe i destini del calcio a quelli della città. Allo stesso tempo i successi della SSC Napoli (un modello imprenditoriale di successo, in grado di insegnare a stare sul mercato alle indebitatissime e pretenziose società del Nord) sono paralleli e sintetizzano (non incarnano) una trasformazione reale della città.

Lo stallo della città novecentesca

Questa – in estrema sintesi – fin dal primo dopoguerra, ma in particolare in epoca repubblicana, è stata sacrificata dalla prospezione geopolitica e dal modello di sviluppo italiano. In particolare è stata costretta a rinunciare alla centralità del porto per la perifericità del Mezzogiorno, la crisi post-ottomana del Nordafrica, la messa in disponibilità del porto stesso per la NATO. Poi la città è stata scientemente deindustrializzata (nell’immagine il famoso comizio di Enrico Berlinguer alla Festa dell’Unità 1976), al prezzo di “rilumpenizzare” interi pezzi della società e rompendo il circuito virtuoso dato dal lavoro formale novecentesco. Infine, è stata demonizzata da decenni di discriminazione leghistoide. Napoli, per molta parte dell’Italia, è un altro da sé da irridere, stigmatizzare, bastonare. Rispetto a tale portato discriminatorio, e alla permanenza dei cosiddetti ‘problemi’, è ridicolo pensare che un successo sportivo riscatti da alcunché.

Un nuovo modello di sviluppo?

Detto ciò è innegabile che, in parallelo con i successi imprenditoriali e sportivi della SSC Napoli, da oltre un decennio, la città stia trovando un suo modello di sviluppo autonomo a dispetto dei santi. Questo comporta una trasformazione del tessuto urbano e della relazione della città col mondo in forme che nel Secolo scorso neanche immaginavamo. Tale modello, imperniato sul turismo di massa, è discutibile, perfettibile, non esaustivo della complessità problematica di una città metropolitana di oltre tre milioni di abitanti. Ogni perplessità è lecita ma, allo stato, tale modello non è altrimenti sostituibile e ne è anzi auspicabile il consolidamento (anche infrastrutturale).

Napoli bene immateriale dell’umanità

Quello che in pochi considerano è che la vague turistica di Napoli sta rompendo l’accerchiamento nel quale ha vissuto la città almeno dal primo dopoguerra e, in particolare, dal terremoto del 1980 in avanti. Cito qui solo tre aspetti che da infrastrutturali stanno divenendo strutturali. Il primo è che i veri trionfi che registra da molti anni l’aeroporto di Capodichino (che valgono dieci scudetti) hanno rimesso Napoli al centro del mondo. Per la prima volta oggi la città è libera dai circuiti del turismo di massa, anchilosati da un secolo sull’asse Roma-Firenze-Venezia. Un tedesco o un americano oggi, per venire a Napoli, non ha più bisogno di passare dall’Italia.

Il turismo, come il calcio, non sarà mai tutto per la capitale morale d’Italia, ma solo un paio di decenni fa – ed è il secondo punto – chi poteva immaginare che questo fosse volano per un settore chiave come l’edilizia, portando a ristrutturare uno dei centri antichi più importanti al mondo? 

Il terzo è che oggi a Napoli non si viene solo per l’eccezionale patrimonio artistico e culturale non secondo a nessuno in Italia e nel mondo, né per la paesaggistica (e qui non faccio graduatorie). Oggi si viene soprattutto per perdersi in una “Neapolitan way of life” che è un “bene immateriale dell’umanità” che in pochi avevano immaginato si potesse mettere a profitto.

Decine di migliaia di turisti in queste settimane stanno venendo a Napoli solo per “godersi la festa”, contribuendo all’indotto economico dello scudetto. La fabbrica novecentesca non tornerà, né col pubblico né col privato, ma a Napoli da cosa sta nascendo cosa. E di questo la storia virtuosa della SSC Napoli si fa ambasciatrice nel mondo.

L'articolo La città di Napoli, non il Napoli, è bene immateriale di se stessa si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
Lula in Brasile, il campione del Novecento all’ultima battaglia https://www.gennarocarotenuto.it/30301-lula-in-brasile-il-campione-del-novecento-allultima-battaglia/ Mon, 03 Oct 2022 05:38:05 +0000 https://www.gennarocarotenuto.it/?p=30301 In Brasile si andrà al secondo turno. Lula da Silva gestirà un corposo vantaggio di cinque punti su Jair Bolsonaro, 48,35% contro 43,26%, sei milioni di voti in più del rivale, 57 milioni contro 51. Partita aperta, paese polarizzato –… Continua

L'articolo Lula in Brasile, il campione del Novecento all’ultima battaglia si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

In Brasile si andrà al secondo turno. Lula da Silva gestirà un corposo vantaggio di cinque punti su Jair Bolsonaro, 48,35% contro 43,26%, sei milioni di voti in più del rivale, 57 milioni contro 51. Partita aperta, paese polarizzato – quale paese non lo è oggidì? – ma soprattutto il vecchio leone, il 77enne Lula, ultimo campione della sinistra novecentesca ancora su piazza, socialdemocratico e cattolico popolare al contempo, latinoamericanista certo del ruolo del Brasile e della Regione nel mondo, è tornato in corsa dopo un’odissea umana che pretendeva di umiliare l’opera di una vita di lotta.

Questo è il primo fatto concreto, al di là della mediatizzazione di sondaggi e risultati parziali che, al momento di quelli reali, dovrebbero essere cancellati anche dalla memoria. C’è un secondo turno, difficile, aperto ma che vede la concreta possibilità di sloggiare Jair Bolsonaro dalla presidenza, un fatto unico dal ritorno della democrazia quasi quarant’anni fa, che ha sempre visto la rielezione del presidente in carica.

Non saranno gli italiani del 25 settembre o gli statunitensi del 6 gennaio a sorprendersi di quanto forte sia penetrato il messaggio dell’odio, a partire da quello classista e razzista di discriminazione delle parti più fragili della società e di quanto pericolosa sia la demolizione della credibilità delle istituzioni nazionali e internazionali costruite dopo la seconda guerra mondiale e, in America Latina, dopo il ciclo dittatoriale degli anni Settanta. Dittatura, quella brasiliana, rivendicata ogni giorno da Bolsonaro come migliore di ogni democrazia. Per quanto sia duro pensarlo, quel Bolsonaro che resta pienamente in partita, ci dice che le classi medie bianche, in particolare nel Sud e nei grandi stati, pensano, sono indotte a pensare, che il regime democratico sia oggi un peso del quale non sanno che farsene. Del quale si disfarrebbero volentieri.

Preferiscono pensare che il mondo sia sempre andato così e vada bene così, e continuare ad avere domestiche a tempo pieno in casa al prezzo di un pacchetto di sigarette, e sentirsi buoni quando regalano loro qualche vestito dismesso per le favelas da dove quelle madri lavoratrici vengono e tornano con dolorosissima umana fatica ogni giorno. A questo si aggiunge il messianismo evangelico che, continuando a vedere il maschio bianco al centro del giardino dell’Eden, non può non vedere nel paternalismo di Bolsonaro il proprio campione.

Campione di un Brasile che ha reso isolato, che può millantare autosufficienza (la lista dei vicini brutalmente insultati, da Boric a Petro a Fernández è lunga) e voltare le spalle alla regione e al mondo. Il contrario della visione del Brasile di Lula, che tornerebbe a esercitare più forte il proprio ruolo in una regione per la prima volta tutta o quasi progressista dalla Terra del fuoco giù fino al confine tra Messico e USA. Una regione che, nel segno dell’integrazione, potrebbe risolvere da sola le sue crisi, come sta già dimostrando la presidenza di Gustavo Petro per quella tra Colombia e Venezuela.

Ma l’America Latina non serve a Bolsonaro, come non serve la scienza (lo ha dimostrato con la pandemia che ha reso un genocidio), la difesa dell’ambiente (la distruzione dell’Amazzonia in omaggio all’agroindustria esportatrice come perpetuazione dell’inserimento subalterno del Brasile nel sistema mondo wallersteiriano) o l’essere presidente di tutti (la misoginia, il razzismo, il classismo, l’omofobia, la denigrazione di qualunque diversità, il disprezzo per i popoli originari sono il suo pane quotidiano, il suo ‘stile’ che evidentemente piace ai 51 milioni che l’hanno votato). E non gli serve il regime democratico, che ha picconato dal primo all’ultimo giorno.

Molti limiti ci sono nella candidatura di Lula, a partire dal rinnovamento generazionale impossibile, all’inevitabilità di alleati scomodi, alla già certezza di un parlamento ostile e di dover trattare con i due candidati centristi che hanno raccolto il 7%. A quasi due decenni dalla prima volta, il vecchio sindacalista metallurgico non è certo il nuovo che avanza. Anche in Brasile pezzi delle classi subalterne hanno voltato le spalle al Partito dei Lavoratori, ed è difficile dar loro solo torto o incolpare solo il nemico, le oligarchie, gli oligopoli mediatici. Straordinari furono i risultati economici di Lula e Dilma; 35 milioni di persone uscirono dalla povertà e oggi sono libere di votare Bolsonaro. Straordinari ma reversibili in assenza di profonde riforme politiche, fiscali, del lavoro. Proprio la pandemia lo ha dimostrato.

Ma con Lula il paese/continente accarezzerebbe il ritorno di politiche inclusive che Temer prima e Bolsonaro poi hanno distrutto negli ultimi sei anni, e che hanno portato 119 milioni di brasiliani a patire insicurezza alimentare. Per molti brasiliani c’è di nuovo, ed è disperante pensarlo, il discrimine tra alimentare i propri figli e vederli morire d’inedia. Le politiche inclusive costano, forse, ma sono l’essenza della democrazia. Ma è proprio contro la democrazia, che disprezza così tanto da lasciarla lì come un orpello svuotato di senso, che Bolsonaro ha raccolto i suoi 51 milioni di voti. Ecco: che questa sintesi tra Trump e Putin, entrambi lo supportano con fervore ricambiato, più volgare ma perfino più incapace di misurare le conseguenze delle sue azioni, continui a governare a Brasilia con un governo militare mascherato da civile, sarebbe un segnale di ulteriore instabilità lanciato al mondo intero.

L'articolo Lula in Brasile, il campione del Novecento all’ultima battaglia si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
In Messico il dialogo sul Venezuela va avanti https://www.gennarocarotenuto.it/30282-in-messico-il-dialogo-sul-venezuela-va-avanti/ Sat, 04 Sep 2021 10:35:46 +0000 https://www.gennarocarotenuto.it/?p=30282 Il dialogo parte dal reciproco riconoscimento. Così a Chapultepec, a Città del Messico, con la mediazione del governo del Messico, incarnato in un lavoro da premio Nobel del Ministro degli Esteri di Andrés Manuel López Obrador, Marcelo Ebrard (foto), e… Continua

L'articolo In Messico il dialogo sul Venezuela va avanti si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

Il dialogo parte dal reciproco riconoscimento. Così a Chapultepec, a Città del Messico, con la mediazione del governo del Messico, incarnato in un lavoro da premio Nobel del Ministro degli Esteri di Andrés Manuel López Obrador, Marcelo Ebrard (foto), e del regno di Norvegia, si sta trattando dalla metà di agosto tra governo e opposizione.

Il primo risultato ottenuto, l’accordo per la partecipazione dell’opposizione pressoché completa alle elezioni amministrative del prossimo 21 novembre, è già in sé straordinario, ma i lavori sono già ripresi con l’obiettivo di dare una soluzione endogena alla lunga crisi politica venezuelana.

Quello che è importante qui capire è che ciò che ha sbloccato la situazione è che si sia partiti dal reciproco riconoscimento della legittimità di entrambi gli attori, il governo della Repubblica Bolivariana presieduto da Nicolás Maduro, l’opposizione incarnata dalle forze principali di questa riunite nella “Piattaforma Unitaria”. Questa include sia Primero Justicia, di Henrique Capriles, che da tempo spingeva per il dialogo, che Voluntad Popular, di Leopoldo López, del quale Juan Guaidó era nel gruppo dirigente.

Cessa (di fatto) quindi il malinteso “for export” del “governo a interim”, presieduto da Juan Guaidó sul quale pezzi dell’opposizione erano stati trascinati dal Segretario Generale dell’Organizzazione degli Stati Americani, Luís Almagro, in sinergia con la parte più estremista del governo Trump negli Stati Uniti. Tale operazione ha dato un contributo sostanziale – ed esclusivamente nefasto – nell’aggravare la crisi venezuelana, che non tratterò in questo articolo.

L’agenda del dialogo di Chapultepec, partendo da distanze che – nessuna delle due parti lo nega – restano siderali tra governo e opposizione, resta complessa. Per il governo il punto principale è l’allentamento delle sanzioni internazionali e lo sblocco degli attivi di proprietà dello stato venezuelano all’estero. I casi simbolici sono la CITGO, la filiale statunitense di PDVSA (la grande compagnia petrolifera statale), che si calcola fatturi 11 miliardi di dollari l’anno nel solo mercato statunitense, e le 31 tonnellate di lingotti d’oro di proprietà venezuelana bloccati nei caveaux della Banca d’Inghilterra.

Per l’opposizione il punto principale è la fine delle cosiddette “inabilitazioni” che colpiscono molti leader dell’opposizione, incluso Capriles e Leopoldo López, e che impediscono loro l’esercizio dell’elettorato passivo, cioè candidarsi ed essere eletti. È evidente come non dipenda solo dall’opposizione l’allentamento dell’embargo – e Biden non pare distanziarsi dalla linea Trump anche nella regione – come in molti casi la cancellazione dell’inabilitazione legittimerebbe politici coinvolti in fatti eversivi o di corruzione. Nulla, da una parte e dall’altra, che si possa risolvere con un tratto di penna ma, fortunatamente, neanche con la spada. 

Mentre a Chapultepec si tratta, in favore di telecamera vedremo continuare entrambe le parti a fare il discorso più radicale. L’opposizione continuerà a spacciare il chavismo per una sorta di talebani d’America, negando che mezzo continente, dall’Argentina al Perù, dalla Bolivia al Messico, per tacere di Lula in Brasile e ovviamente Cuba, li supporti e ne difenda l’esperienza. Il governo può continuare a dipingere tutta l’opposizione come indistintamente venduta al nemico imperialista o corrotta. La verità però l’ha detta Gerardo Blyde, rappresentante dell’opposizione a Chapultepec, che ha riconosciuto che “entrambe le parti devono rinunciare alle rispettive narrazioni”.

Con l’attenzione costante di Papa Bergoglio, i venezuelani, nel governo e all’opposizione, hanno sempre dialogato (spesso sottotraccia), e stanno provando a trovare un difficile cammino di riconciliazione, che non passa necessariamente dal lieto fine auspicato dal complesso mediatico industriale mainstream, ovvero la cancellazione del chavismo dalla faccia della Terra, ma dove le istanze di questo – quelle delle classi subalterne – resteranno ineludibili anche in futuro, chiunque governi il Venezuela.

Lo scorso gennaio l’Unione Europea (non l’Italia che mai lo aveva riconosciuto) ha avuto ragione a mettere fine alla farsa del riconoscimento dell’entità astratta inventata di punto in bianco da Almagro, facente capo a Juan Guaidó, mentre si attende una resipiscenza da parte dell’amministrazione Biden. Eppure molti danni in due anni e mezzo sono stati fatti nel fomentare una soluzione violenta della crisi venezuelana, il millantare un’invasione militare straniera, il cercare in tutti i modi rivolte militari e legittimare, culturalmente prima ancora che politicamente, un eventuale colpo di stato che, lo sappiamo, non è mai uscito dal novero delle possibilità delle destre latinoamericane.

Nel 2019 lo dimostrò la Bolivia, sempre con il sinistro Almagro a fare da mentore della distruzione della democrazia, poi salvata dal popolo boliviano dopo un anno di lotta contro il governo di fatto di Jeanine Áñez. Che il dialogo vada avanti, una volta aperto il cammino con le elezioni, che restano il segno più visibile della fine di uno stato di quasi belligeranza, è la miglior notizia per il Venezuela e l’America Latina. Per altri, a partire da chi soffiava sul fuoco del golpe militare, non saprei.

L'articolo In Messico il dialogo sul Venezuela va avanti si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
“Domani”: Il declino dell’esportazione della democrazia e le responsabilità di Biden https://www.gennarocarotenuto.it/30276-domani-il-declino-dellesportazione-della-democrazia-e-le-responsabilita-di-biden/ Sat, 21 Aug 2021 08:10:06 +0000 https://www.gennarocarotenuto.it/?p=30276 Joe Biden sostiene che mai l’obiettivo dell’invasione dell’Afghanistan fosse stato l’esportazione della democrazia. Non è vero: fin dalla fine della guerra fredda la diffusione globale dei “valori occidentali” di libertà democrazia e diritti umani è stata la missione che gli… Continua

L'articolo “Domani”: Il declino dell’esportazione della democrazia e le responsabilità di Biden si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

Joe Biden sostiene che mai l’obiettivo dell’invasione dell’Afghanistan fosse stato l’esportazione della democrazia. Non è vero: fin dalla fine della guerra fredda la diffusione globale dei “valori occidentali” di libertà democrazia e diritti umani è stata la missione che gli Stati Uniti si diedero in un mondo che pensavano unipolare. Vent’anni fa, il documento noto come “Dottrina Bush” teorizza tra i suoi pilastri, oltre all’unilateralismo e al diritto alla guerra preventiva, l’esportazione della democrazia con il “regime change”.
Di Gennaro Carotenuto, a questo link per il Quotidiano Domani

L'articolo “Domani”: Il declino dell’esportazione della democrazia e le responsabilità di Biden si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
A Kabul finisce la jihad occidentalista; quelle donne abbandonate dagli USA ai talebani spiegano i nostri tempi https://www.gennarocarotenuto.it/30260-kabul-jihad-occidentalista-donne-usa-talebani/ Sun, 15 Aug 2021 08:34:28 +0000 https://www.gennarocarotenuto.it/?p=30260 La tragedia della capitale afgana Kabul, che corre verso un nuovo 30 aprile, il giorno del 1975 quando fu evacuata l’ambasciata statunitense a Saigon, è un passaggio storico di prima grandezza, che pare chiosare un tempo più lungo del nostro… Continua

L'articolo A Kabul finisce la jihad occidentalista; quelle donne abbandonate dagli USA ai talebani spiegano i nostri tempi si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

La tragedia della capitale afgana Kabul, che corre verso un nuovo 30 aprile, il giorno del 1975 quando fu evacuata l’ambasciata statunitense a Saigon, è un passaggio storico di prima grandezza, che pare chiosare un tempo più lungo del nostro presente. La narrazione neoconservatrice del nuovo secolo americano, figlia ancora del trionfo statunitense nella guerra fredda, fu declinata nel post-11 settembre 2001 nella teoria della esportazione della democrazia in punta di baionetta.

Donald Rumsfeld, il criminale di guerra da poco scomparso, impune come impuni sono rimasti George Bush jr, Tony Blair e i loro principali complici, tuonava che fosse necessario muovere guerra a 30-50 paesi per quel disegno che rispondeva alla logica del “pensiero unico”: la supremazia, economica, militare, etica, del maschio bianco occidentale sul pianeta. Guardando indietro, con pallidissime attenuazioni nell’era Obama, se sommiamo alle guerre conclamate le “covert action”, gli embarghi che anche in queste ore impediscono perfino l’arrivo di bombole di ossigeno ai popoli che si sostiene di voler salvare, e le rivoluzioni colorate, non andiamo lontani da quei numeri angosciosi. Se al contrario, e proprio l’imminente capitolazione del governo afgano lo dimostra, contiamo il numero di “democrazie esportate” il piatto (per i popoli) piange.

L’Occidente liberal-democratico, la Washington neoconservatrice, riteneva di potere, di avere il diritto-dovere, di imporre i propri valori. Valori da imporre attraverso una jihad occidentalista, una guerra santa che chiamarono “infinite justice”, giustizia infinita. A difesa di quella guerra santa fu schierato l’intero complesso mediatico mainstream. Per anni chiunque non si uniformasse a quella narrazione bellicista era accusato di essere complice dei terroristi, Osama Bin Laden e succedanei. Nonostante le stucchevoli commemorazioni di queste ore di quelli che si accomodano sempre dalla parte della ragione, per loro Gino Strada era un terrorista. E come Gino Strada erano per esempio terroristi tutti gli indigeni latinoamericani (ho memoria, non dimentico, non perdono), dai mapuche della Patagonia cilena ai movimenti contadini, quelli ambientalisti o per l’acqua pubblica in tutto il Continente, e i governi che quei movimenti osarono esprimere come risposta alla logica unicamente mercatista della democrazia, battezzata fin dal 1989 Washington consensus.

Sappiamo bene, lo sapevamo anche vent’anni fa, quando a milioni scendemmo in piazza contro quelle “guerre infinite” (anche noi, tutti terroristi e amici dei talebani o di Saddam Hussein) che dietro il millenarismo della “fine della storia” vi fosse poco più della cultura militarista e gli interessi multimilionari del complesso militare industriale e di quello, negazionista del cambio climatico, dei combustibili fossili. In quell’invasione, in quei duemila miliardi spesi nella quasi totalità in armi, come afferma Gino Strada nel suo testamento politico, non c’era altro. Men che meno vi erano le donne che si levavano il burka, buone per un po’ di comunicazione for export, per dare una mano di vernice progre a una tradizionale guerra coloniale. Colonialismo che, come è noto, ha sempre esportato la propria civiltà a fin di bene.

Se ci fosse stato altro, oltre all’infinita ipocrisia, non avremmo tradito le masse giovanili mediorientali, almeno in parte occidentalizzate, che si sollevarono nelle primavere arabe. Saremmo state dalla loro parte e non avremmo continuato a tenerci il sacco a vicenda con classi dirigenti vili, corrotte, violente, oscurantiste e all’uopo terroriste. La viltà di George Bush padre, che dopo la prima guerra del Golfo, tradì gli sciiti iracheni dopo averli indotti a sollevarsi contro Saddam Hussein, è stata in questi anni ripetuta su infiniti scacchieri. Quelle migliaia di uomini e donne afgani abbandonati nelle mani dei talebani, e che nella migliore delle ipotesi si trasformeranno in novelli “boat people” vietnamiti (oggi indesiderabili, ma questo è un altro tema), sono solo l’ultimo caso di un Sud globale che ormai sa che proprio chi crede alla retorica della democrazia occidentale sarà il primo a essere tradito da questa.

Eppure oggi sui giornali leggiamo l’ennesimo ribaltamento della realtà. Di fronte a quella che è una sconfitta esiziale tanto militare come politica degli Stati Uniti d’America (e a cascata dell’Europa) gli editoriali dei difensori a oltranza di una impresa indifendibile hanno il cattivo gusto di sostenere che, se vent’anni di intervento militare non sono bastati, allora oggi è giusto lasciare gli afgani (le donne afgane, sulle quali tanta retorica è costruita anche in queste ore) al loro destino. Come nelle narrazioni sul nostro Mezzogiorno, non siamo noi a essere scappati via col bottino, solo loro a essere irredimibili. E quindi, così come andammo generosamente ad aiutarli, così adesso li abbandoniamo al loro destino, restando sempre e comunque dalla parte della ragione.

Mi si consenta una chiosa che meriterebbe ben altra trattazione. Chi scrive coincide che una serie di fenomeni della nostra epoca, quelli sopra ricordati, il tramonto necessario dell’epoca dei combustibili fossili connessa al cambio climatico, la stessa pandemia del Covid, siano linee di faglia che attestano la fine di cinquecento anni di supremazia dello spazio nordatlantico e delle culture che vi insistono sul pianeta. Accade, è noto, in favore di quelle dell’Asia orientale, la Cina in primo luogo, il cinismo della quale è innegabile e indifendibile su innumerevoli scacchieri, incluso quello afgano. Se non è desiderabile, personalmente non lo desidero affatto, un “secolo cinese”, è innanzitutto necessario ammettere che il nuovo secolo americano non sia mai esistito se non negli interessi di pochissimi, quegli stessi che negli ultimi trent’anni hanno prodotto la più grande concentrazione di ricchezza della storia nello stesso Occidente, contribuendo in maniera decisiva a indebolirne i regimi democratici.

Una volta di più, come anche le commemorazioni per il ventennale di Genova hanno dimostrato, chi governava sbagliava (e non in buona fede) e chi protestava aveva ragione. Ma cosa sta facendo il mondo euro-americano per convivere in pace e democrazia, proprio sulla base dei propri valori, veri, presunti, millantati, in un mondo che o è multipolare o non sarà? Un altro Occidente, che ripudi la guerra, resta possibile e necessario.

L'articolo A Kabul finisce la jihad occidentalista; quelle donne abbandonate dagli USA ai talebani spiegano i nostri tempi si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
“Domani”: Processo Condor. La Cassazione dà giustizia ai desaparecidos dell’America Latina https://www.gennarocarotenuto.it/30266-domani-processo-condor-la-cassazione-da-giustizia-ai-desaparecidos-dellamerica-latina/ Fri, 09 Jul 2021 17:35:03 +0000 https://www.gennarocarotenuto.it/?p=30266 Oggi la Corte ha confermato gli ergastoli per il sequestro, la tortura, l’assassinio di 43 italiani. Il percorso giuridico è durato 22 anni e ora il verdetto segna una svolta epocale. Di Gennaro Carotenuto

La sentenza della Cassazione a Roma per… Continua

L'articolo “Domani”: Processo Condor. La Cassazione dà giustizia ai desaparecidos dell’America Latina si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

Oggi la Corte ha confermato gli ergastoli per il sequestro, la tortura, l’assassinio di 43 italiani. Il percorso giuridico è durato 22 anni e ora il verdetto segna una svolta epocale. Di Gennaro Carotenuto

La sentenza della Cassazione a Roma per il cosiddetto “processo Condor” in America Latina, che ha confermato tutti gli ergastoli del secondo grado (nel tempo alcune posizioni sono state stralciate e alcuni imputati sono deceduti) per il sequestro, la tortura e l’assassinio con eventuale desaparición di 43 cittadini italiani, dopo un percorso giuridico durato ben ventidue anni, è storica. Il dispositivo della sentenza infatti, secondo l’avvocato dei familiari di alcune delle vittime, Andrea Speranzoni, «è uno strumento sovranazionale con il quale l’Italia si fa carico del dovere di sanzionare i crimini di lesa umanità contro cittadini italiani ovunque accadano».

Leggi tutto sulle pagine del quotidiano Domani.

L'articolo “Domani”: Processo Condor. La Cassazione dà giustizia ai desaparecidos dell’America Latina si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
State con Primo Levi o Carlo Stagnaro? Della lettera all’Espresso per Pinelli e dell’eterno odio per l’intellettuale engagé https://www.gennarocarotenuto.it/28781-primo-levi-o-carlo-stagnaro/ Mon, 28 Jun 2021 16:21:13 +0000 http://www.gennarocarotenuto.it/?p=28781 La farsesca aggressione del mainstream contro gli economisti che hanno ritenuto di esercitare il loro diritto di critica per la nomina di Carlo Stagnaro e altri estremisti neoliberali a consulenti di Mario Draghi per il PNRR, punta alla delegittimazione dei… Continua

L'articolo State con Primo Levi o Carlo Stagnaro? Della lettera all’Espresso per Pinelli e dell’eterno odio per l’intellettuale engagé si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

La farsesca aggressione del mainstream contro gli economisti che hanno ritenuto di esercitare il loro diritto di critica per la nomina di Carlo Stagnaro e altri estremisti neoliberali a consulenti di Mario Draghi per il PNRR, punta alla delegittimazione dei firmatari tirando in ballo tutto il peso della storia degli anni Settanta, che non ha nulla a che vedere, ma vale qui la pena di rammentare.

Cosa accomuna la grande architetta Gae Aulenti all’autore di “Se questo è un uomo” Primo Levi o a Umberto Eco, Federico Fellini, Giulio Einaudi, Natalia Ginzburg? O lo psichiatra Franco Basaglia, Mario Soldati, Norberto Bobbio, Pier Paolo Pasolini, Natalino Sapegno, Giorgio Bocca, e altre centinaia (757) di specchiati e grandi italiani? Il 13 giugno 1971, a ben guardare esattamente 50 anni fa, firmarono una lettera al settimanale L’Espresso con la quale si denunciava l’oscena impunità per la defenestrazione dell’anarchico Pinelli dalla Questura di Milano dopo la Strage fascista di Piazza Fontana, e se ne incolpava tra gli altri il sinistro questore Michele Guida e il commissario Mario Calabresi. La lettera, vale la pena essere chiari, era sbagliata nel merito e nel linguaggio, rispondendo al clima di quegli anni, ma incarnava la necessità civile di scoperchiare la fogna dell’impunità degli apparati dello Stato che caratterizzava l’Italia di quegli anni, e continua a caratterizzarla, come per esempio nel 2001 a Genova.

Con l’assassinio del Commissario Calabresi nel 1972 fu infatti teorizzato un “nesso causale” tra lettera e omicidio, trasformato presto in dogma indiscutibile. Per il teorema del “nesso causale” (Giampaolo Pansa fu tra i più attivi, col consueto ribaltamento della realtà da lui operato più tardi anche sulla Resistenza) Gillo Dorfles o Cesare Musatti, Folco Quilici o Nanni Loy, avevano armato la mano al sicario ed erano fiancheggiatori degli assassini. Sebbene accusare Primo Levi o Federico Fellini di essere mandanti morali dell’omicidio Calabresi fosse aberrante (equivalente ad accusare Ugo Tognazzi di essere il capo delle BR), è esattamente quello che è successo in Italia infinite volte nell’ultimo mezzo secolo allo scopo di delegittimare l’espressione di pensiero critico e marginalizzare gli intellettuali engagé. Come ovvio Calabresi non fu ucciso né da Cesare Zavattini né da Margherita Hack, ma dai suoi assassini. La mano del sicario (condannato) Ovidio Bompressi fu armata dall’IMPUNITÀ per l’omicidio Pinelli, che la lettera denunciava, in anni nei quali i crimini dei corpi repressivi venivano sistematicamente coperti, negati, o trasformati in suicidi o in fantomatici “malori attivi” come accadde per Pinelli.

Torniamo a oggi: è ben evidente che non vi sia alcun nesso tra le tragedie degli anni Settanta e una consulenza a Palazzo Chigi a tal Carlo Stagnaro. Evocare la violenza politica è semplicemente infondato. Chi scrive (non ho firmato la lettera) è stato colpito dalla mole di editoriali indignati, palesemente coordinati, accorsi in difesa del vincitore, un dogmatico difensore di quello che Ignacio Ramonet chiamava “pensiero unico” neoliberale, negli anni difensore dell’industria delle armi, di quella del tabacco, negazionista sul cambio climatico e chiamato a giudicare sul PNRR come espressione, secondo un’altra lettera della Società Italiana di Economia, dei maschi bianchi settentrionali che non possono (più), secondo la SIE, rappresentare in via esclusiva gli interessi di tutto il paese, per esempio delle donne o del Mezzogiorno. Se la lettera degli economisti e quella della SIE andavano nel merito, e muovevano delle legittime critiche alle competenze e alla figura di Stagnaro, la reazione non si preoccupa affatto del merito. Furiosa e ripetitiva ritira per la millesima volta fuori dal cassetto la lettera all’Espresso di mezzo secolo fa: oggi come allora gli intellettuali (ovviamente definiti “comunisti”), non possono criticare la nomina perché starebbero armando la mano al sicario.

Nel fastidio che si spinge fino a negare il diritto di critica, e nella strumentalità di associare la critica alla violenza, mi sembra che vi sia una sola continuità. Quello che non cambia mai in Italia, dal culturame di Scelba ai giorni nostri, è lo stesso odio viscerale che le classi dirigenti, soprattutto economiche, e i loro sicari informativi, che hanno eletto il profitto a principio morale e la disuguaglianza a stato di natura, hanno per l’intellettuale impegnato. Questo in genere, almeno nell’accezione classica, viene ridicolizzato se non demonizzato, per il non avere motivazioni utilitaristiche ma di sensibilità per la condizione umana. Ancora si permette di firmare stantii appelli per gli indigeni colombiani, per i raccoglitori di pomodori in Puglia, o per criticare una nomina del governo Draghi, proprio come un tempo chiedeva giustizia per Pino Pinelli. Il problema infatti non è l’indimostrabile nesso causale che accusava Natalia Ginzburg della morte di Mario Calabresi, ma la causa di giustizia per Pinelli. E qui sì, si capisce perfettamente perché tra uno Stagnaro e Primo Levi le élite staranno sempre dalla parte del primo.

L'articolo State con Primo Levi o Carlo Stagnaro? Della lettera all’Espresso per Pinelli e dell’eterno odio per l’intellettuale engagé si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
“Domani”: Per i falsi positivi della Colombia ora Uribe deve rispondere https://www.gennarocarotenuto.it/30269-domani-per-i-falsi-positivi-della-colombia-ora-uribe-deve-rispondere/ Mon, 22 Feb 2021 14:56:29 +0000 https://www.gennarocarotenuto.it/?p=30269 Di Gennaro Carotenuto, pubblicato dal Quotidiano “Domani” il 22 febbraio 2021. Sono 6402 i falsi positivi, cioè persone inermi, studenti, contadini, uccisi dall’esercito e spacciati per guerriglieri Farc durante la presidenza Uribe. El Paìs solleva il dibattito in Europa e… Continua

L'articolo “Domani”: Per i falsi positivi della Colombia ora Uribe deve rispondere si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

Di Gennaro Carotenuto, pubblicato dal Quotidiano “Domani” il 22 febbraio 2021. Sono 6402 i falsi positivi, cioè persone inermi, studenti, contadini, uccisi dall’esercito e spacciati per guerriglieri Farc durante la presidenza Uribe. El Paìs solleva il dibattito in Europa e chiede che «Uribe ne risponda».

«Uribe debe responder». Il quotidiano El País di Madrid oggi dedica il proprio editoriale alla Colombia con un titolo che fa rumore: «Uribe deve rispondere». Si riferisce alla notizia, di primaria importanza, ma totalmente ignorata dalla stampa in lingua italiana, che la Jep (la giunta per le questioni giuridiche del processo di pace tra la guerriglia delle Farc e il governo della Colombia) abbia elevato a 6402 il numero dei cosiddetti “falsi positivi” uccisi durante la presidenza di Álvaro Uribe, in particolare nel periodo dal 2002 al 2008.

Leggi tutto sulle pagine del quotidiano Domani.

L'articolo “Domani”: Per i falsi positivi della Colombia ora Uribe deve rispondere si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
Il lungo cammino delle donne in Argentina, da Eva alle desaparecidas, dalle madri a Cristina all’aborto legale https://www.gennarocarotenuto.it/28761-il-lungo-cammino-delle-donne-in-argentina-da-eva-alle-desaparecidas-dalle-madri-a-cristina-allaborto-legale/ Wed, 30 Dec 2020 13:46:43 +0000 http://www.gennarocarotenuto.it/?p=28761 Marea Verde

Il percorso concluso questa notte in Argentina, con l’approvazione dell’aborto legale, porta a compimento cinquant’anni di lotte delle donne e della società civile.

La visione esclusivamente da “guerra fredda” delle dittature latinoamericane degli anni Settanta impedisce di vedere… Continua

L'articolo Il lungo cammino delle donne in Argentina, da Eva alle desaparecidas, dalle madri a Cristina all’aborto legale si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
Marea Verde

Il percorso concluso questa notte in Argentina, con l’approvazione dell’aborto legale, porta a compimento cinquant’anni di lotte delle donne e della società civile.

La visione esclusivamente da “guerra fredda” delle dittature latinoamericane degli anni Settanta impedisce di vedere che il campo conservatore usò le camere di tortura anche se non soprattutto per fermare l’espansione dei diritti civili nella regione.

E all’interno delle lotte per i diritti civili quella sul corpo delle #donne resta la più biopolitica di tutte. Non dimenticate che un terzo dei 30.000 desaparecidos in Argentina era donna, militante e femminista. Per l’altissimo grado di partecipazione femminile il numero di donne uccise fu così alto. I decenni che ci separano dal ripristino della democrazia negli anni Ottanta sono quelli che sono stati necessari per recuperare quel trauma. Sono costati almeno 3000 donne argentine morte di aborto clandestino, per intero responsabilità del campo conservatore.

Oggi la coscienza della società civile in Argentina è irriducibilmente avanti, ma ricordiamo che la lotta per i diritti civili è figlia di quella per i diritti umani. La fine dell’impunità, la verità e la giustizia per gli anni Settanta, madri, abuelas e hijos hanno dato forza alla #MareaVerde di oggi. La situazione nella regione resta variegata, L’Argentina si aggiunge così a Cuba, all’Uruguay, alla Città del Messico e allo Stato di Oaxaca, dove l’aborto è già legale.

Proprio il Messico, dove si può abortire legalmente in alcuni posti ed essere condannate a vent’anni di galera, come a Querétaro e a Guanajuato attesta quanto ancora sia lungo il cammino. Sono donne quasi sempre indigene, povere, spesso analfabete, a testimonianza che il sessismo sia sempre alleato del razzismo e del classismo. L’odio reazionario e sessista nei confronti delle donne latinoamericane non è mai diminuito da quando celebravano il cancro che colpì Eva Perón, della quale, vale la pena ricordare, la Marea Verde delle ragazze del XXI secolo è erede politica.

L'articolo Il lungo cammino delle donne in Argentina, da Eva alle desaparecidas, dalle madri a Cristina all’aborto legale si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
La sentenza su Juventus-Napoli piccona la narrazione nazionale antinapoletana https://www.gennarocarotenuto.it/28746-la-sentenza-su-juventus-napoli-piccona-la-narrazione-nazionale-antinapoletana/ Wed, 23 Dec 2020 12:02:55 +0000 http://www.gennarocarotenuto.it/?p=28746 Non è solo calcio il senso della sentenza sulla partita rinviata il 4 ottobre tra Juventus e Napoli, che stabilisce in via definitiva che il Napoli abbia rispettato alla lettera le regole. Lo conferma lo strasabaudo Maurizio Crosetti, ancora indignatissimo,… Continua

L'articolo La sentenza su Juventus-Napoli piccona la narrazione nazionale antinapoletana si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

Non è solo calcio il senso della sentenza sulla partita rinviata il 4 ottobre tra Juventus e Napoli, che stabilisce in via definitiva che il Napoli abbia rispettato alla lettera le regole. Lo conferma lo strasabaudo Maurizio Crosetti, ancora indignatissimo, al quale Repubblica affida l’editoriale sulla vicenda, che insiste: “non era un fatto tecnico ma etico”. L’abile Crosetti scrive “tecnico” ma vuol dire “di diritto“. E quell’etico/morale, in assenza di prove, chiama in causa la narrazione nazionale sulla connaturata devianza, la furbizia, la slealtà, addebitata alla città di Napoli. Per l’enorme “produttore di senso” che è il mondo del calcio, il merito del caso, il diritto, resta secondario, rispetto alle sue basi “etiche”, etico/discriminatorie sulle quali doveva appoggiarsi la sentenza che condannava il Napoli.

La finzione che il caso Juventus-Napoli non fosse una questione di diritto, crollata con la sentenza di ieri, per oltre due mesi e due sentenze si è retta su due punti inscindibili: da una parte che il famoso “protocollo” fosse un patto di sangue per salvare il calcio (solo il calcio, non il turismo, la scuola, o qualunque altro settore messo in crisi dalla pandemia) e che questo fosse al di sopra delle leggi dello Stato. Dall’altra parte si supponeva che vi fosse un soggetto antropologicamente deviante, il napoletano per sua natura incline a violare le regole, alla furbizia, alla slealtà, del quale non fosse necessario dimostrare in punta di diritto la responsabilità perché colpevole per antonomasia.

Tale attribuzione di disvalori, funzionale qui a salvare l’istituzione calcio (vien voglia di scomodare l’ebreo Dreyfuss che doveva essere condannato per salvare l’onore dell’esercito francese), è a fondamento delle due sentenze spazzate via ieri. Il giudice di primo grado, Mastrandrea (più abile), non entra neanche nel merito. La domanda era: il Napoli poteva violare la disposizione della ASL, che metteva in quarantena tutta la squadra già sull’autobus per l’aeroporto, e in contrasto col protocollo? Lui dribbla, non si pronuncia, ma condanna. Le leggi dello Stato per Mastrandrea non esistono (oibò), elude il conflitto (presunto) tra due poteri, e si limita ad attaccare il cavallo dove vuole il padrone. Occhio: il padrone non è la Juventus, come pure sarebbe facile semplificare. Il padrone è la FIGC, il protocollo, la montagna di debiti che può far fallire un salumiere o un imprenditore, ma non il calcio.

La Juventus nella vicenda ha un ruolo marginale, ma la sua responsabilità è cruciale nel contribuire alla “costruzione di senso”. Nella sceneggiata dello Stadium è probabilmente trascinata da quel pugile suonato che è ormai Sky, che ha una visione esclusivamente quantitativa e mai qualitativa del prodotto che vende. Poi però c’è l’insistenza farisaica (etica di nuovo) sul rispetto delle regole, nonostante un atteggiamento solidale non fosse impercorribile, magari per giocare dopo un altro giro di tamponi. La Juventus, già turbata dal caso Suárez, si lascia così trascinare dalla necessità di mettersi dalla parte della ragione, facendosi così oggi carico di una sconfitta non sua. Un disastro, soprattutto per chi può contare sulla buona stampa di legioni di comunicatori benevoli.

Il giudice Sandulli (più volgare del predecessore) completa l’opera: suppone (solo suppone, quindi sostanzialmente inventa) accordi sotto banco tra ASL e Napoli e, per condannare senza prove, abbandona il linguaggio giuridico per quello da bar o da social. Non aveva altro su cui appoggiarsi. La giudice Flammini lo fa letteralmente a pezzi affermando: «Il protocollo è confusionario. La facoltà di autorizzare la trasferta era della Asl e la sua interlocuzione col Napoli fu doverosa. Il giudice sportivo in primo grado e soprattutto la Corte d’Appello Federale hanno fatto un passo più lungo della gamba».

Dunque quei toni sprezzanti, gratuiti, offensivi, con i quali il giudice Sandulli stigmatizzava una slealtà che addebita non solo alla SSCN ma al contesto napoletano, facendo strame della rispettabilità e della dignità di fior di professionisti, e che tanto avevano ferito l’intera città, contro la quale una parte d’Italia si sente in diritto di accanirsi, sono il cuore dell’intera vicenda. Decontestualizzando senza prova alcuna, questo è ormai comprovato e Cassazione dopo la sentenza di ieri, Sandulli sostiene che il Napoli avrebbe avuto un interesse di piccolo cabotaggio (triviale rispetto al maggior bene comune del protocollo) a non voler giocare e che la ASL di Napoli si sia prestata. Lo sostiene, lo sappiamo, senza prova alcuna; ma così si sarebbe fatta pari e patta con quei docenti dell’università perugina che sarebbero scattati sull’attenti alle richieste dell’operativo Paratici, e sui quali si potrebbe esprimere la magistratura ordinaria. Quella di Sandulli è stata dunque una condanna esclusivamente morale, cioè politica, che, di nuovo, si appoggiava non su fatti, ma sulla narrazione nazionale del napoletano deviante.

È bastato mettere il caso in mano a un giudice terzo, il CONI, che uscisse dal losco contubernio della FIGC, perché tutta la costruzione, dallo Stadium a Sandulli, cadesse come un castello di carte. Non si può sostenere che “mi sa che il Napoli si sia accordato con la ASL, perché si sa signora mia come sono fatti sti napoletani” (questo diceva la sentenza Sandulli) ma ci vogliono le prove. E in mancanza di prove, l’imputato è assolto (strano, ma vero). Inoltre si dimostra che il protocollo non sia al di sopra della legge dello Stato e, se questo non riesce a coprire tutta la casistica, come quella del caso specifico, saranno necessari dei correttivi. Soprattutto però, che piaccia o no, esce demolito il principio di presunzione di colpevolezza del Napoli, di Napoli e dei napoletani, la violenza inaudita della sentenza Sandulli, convinto di potersi fare scudo dell’abiezione dell’attribuzione di disvalori a una parte del paese, sulla quale è costruita la narrazione nazionale. Se l’Italia avesse ancora un po’ di senno farebbe tesoro di questa sentenza.

L'articolo La sentenza su Juventus-Napoli piccona la narrazione nazionale antinapoletana si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
Dei manzoniani «venticinque lettori» de «Il Foglio», Laura Boldrini, il merito, il mercato, il finanziamento pubblico https://www.gennarocarotenuto.it/28732-dei-manzoniani-venticinque-lettori-de-il-foglio-laura-boldrini-il-merito-il-mercato-il-finanziamento-pubblico/ Wed, 02 Dec 2020 12:37:49 +0000 http://www.gennarocarotenuto.it/?p=28732 L’operazione di sicariato condotta da Il Foglio contro Laura Boldrini, sommandosi a quella molto mainstream orchestrata dagli amici della famiglia Feltri, dopo la mancata pubblicazione di un articolo sul blog privato dell’ex-presidente della Camera sul sito dell’Huffington Post, ha destato… Continua

L'articolo Dei manzoniani «venticinque lettori» de «Il Foglio», Laura Boldrini, il merito, il mercato, il finanziamento pubblico si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

L’operazione di sicariato condotta da Il Foglio contro Laura Boldrini, sommandosi a quella molto mainstream orchestrata dagli amici della famiglia Feltri, dopo la mancata pubblicazione di un articolo sul blog privato dell’ex-presidente della Camera sul sito dell’Huffington Post, ha destato sdegno. Lunedì 30 novembre l’ex presidente della Camera è stata sbattuta come un mostro in prima pagina, addebitandole una complessa polemica che coinvolge la scrittrice JK Rowling, nella quale Laura Boldrini non aveva alcun ruolo. Una vera vigliaccata gratuita, dopo che il giorno prima il vicedirettore Crippa aveva sostenuto che Boldrini rappresentasse addirittura un pericolo per la libertà di stampa (sic). Tra le molte critiche al Foglio, in particolare su Twitter, un punto è risultato nodale, ma non unico: il fatto che il giornale abbia ricevuto dal 1997 almeno 54 milioni di Euro di finanziamento pubblico, ma non venda in edicola che un numero di copie così basso (un migliaio?) da non poter essere registrato dagli enti appositi.

Chiarisco subito che il punto non sia irridere al Foglio perché vende un numero infimo di copie (un fatto, non un’opinione). La questione è ben più complessa. Quel giornale riceve da un quarto di secolo un abnorme finanziamento pubblico e un’ancor più importante eco mediatica, che ne porta la redazione costantemente in tivù a fare opinione pubblica, ottenendo un’influenza senza alcuna proporzione con la reale rappresentatività nel sistema mediatico del paese. Il Foglio è un giornale che non esiste nelle edicole ma esiste in tivù. Anche senza usare un bilancino, è evidente non vi sia alcun rapporto tra vendite del Foglio e le citazioni o inviti in tivù. Sono bravi, si dirà. Ma come mai tanta bravura e tanta pubblicità gratuita sui media audiovisuali, non si traduce mai in vendite nelle edicole, che resta sempre la legge numero uno del capitalismo? È un fatto curioso, che merita attenzione. Cercherò di essere breve sui seguenti punti: 1) Sullo stare sul mercato. 2) Sull’amplificazione/distorsione della rappresentanza. 3) Sulle campagne mediatiche.

SULLO STARE SUL MERCATO

Non ripercorrerò il perché e percome e attraverso quali trucchi il Foglio acceda ad un colossale finanziamento pubblico. Voglio riflettere su una stranezza. Basta conoscere un po’ di “storia del giornalismo” (materia che ho insegnato per dodici anni a Unimc e alla Bocconi) per sapere come in Europa i media liberal-capitalisti vincano la competizione su quelli socialdemocratici sulla base di un’incomparabile facilità di accesso alla raccolta pubblicitaria e di rappresentanza di interessi egemoni.

Basta ricordare la storia del Daily Herald che fallì nel 1964 vendendo il doppio di copie di Guardian, Times e Financial Times insieme, ma che aveva una raccolta pubblicitaria di un decimo. Il Foglio rappresenta pienamente gli interessi egemoni che avrebbero interesse e facilità a investire sul giornale. Al contrario, per esempio, Il Manifesto no. Ammesso e non concesso che quella che portò il Daily Herald a chiudere fosse una distorsione del sistema democratico, il finanziamento pubblico nasce proprio per permettere a opzioni etico-culturali (una volta dicevamo ideologie) di rappresentarsi rispetto ad opzioni etico-culturali naturalmente “più ricche”. In buona sostanza il finanziamento pubblico nasce per correggere il mercato e permettere a giornali come il Manifesto di combattere ad armi pari la battaglia delle idee con giornali come il Foglio, che di quel finanziamento non avrebbero bisogno perché naturalmente (legittimamente) amici del mercato.

Il Foglio sarebbe dunque un’eccezione che conferma la regola? Può ben essere, ma di nuovo la mia domanda è: come mai il Foglio non sta sul mercato? L’ideologia del giornale è marcatamente liberal-capitalista. Da un quarto di secolo predica legittimamente le virtù del mercato. Il profilo socio economico dei pur pochi lettori è particolarmente elevato. Cosa impedisce loro una raccolta pubblicitaria (macchine di lusso, moda, consumi di target elevato, grandi multinazionali) che riequilibri la bassa tiratura e produca utili? È una necessità il ricorrere al finanziamento pubblico o è un vezzo, quasi una scelta estetica?

SULL’AMPLIFICAZIONE/DISTORSIONE DELLA RAPPRESENTANZA

La moltiplicazione dei giornali di destra liberista e/o sovranista comporta da almeno vent’anni una riscrittura a loro favore del Manuale Cencelli delle citazioni nelle rassegne stampa e soprattutto nelle comparsate televisive che, per troppe ragioni che non vale la pena elencare, sono particolarmente ambite. Insomma il Foglio, partendo dai suoi «venticinque lettori» manzoniani, passando attraverso i milioni del finanziamento pubblico, è in grado di influenzare l’opinione pubblica e garantire ai suoi redattori enorme visibilità. Di nuovo si dirà: sono bravi. Ma allora, perché da ferventi detrattori del ruolo dello stato nell’economia prestano il fianco a tale critica?

La mia domanda è: fino a che punto l’effetto leva che il Foglio mette in moto, non solo elude le virtù del mercato ma aggira la logica profondamente democratica del finanziamento pubblico? Non stiamo raggiungendo esattamente l’effetto opposto rispetto a quello desiderato, distorcendo e non garantendo la rappresentanza democratica? La ratio è che il Foglio debba essere finanziato perché vende troppo poco? Ma quanto poco è accettabile? Esiste una proporzione plausibile tra finanziamento pubblico e rappresentatività di un gruppo socio-culturale? Qual è il “public interest” a finanziare quella pubblicazione che trova così scarso interesse nei lettori?

SULLE CAMPAGNE MEDIATICHE

Non è rilevante la mia distanza dalle posizioni del Foglio, per esempio da firme come quella di un Langone, ma sono molto preoccupato da altre questioni. Per esempio il Foglio, a partire dallo stesso direttore Cerasa, ha ripetutamente e convintamente veicolato teorie antiscientifiche e negazioniste sul Cambio climatico, riconosciuto da molti anni come un fatto dal 99,9% dei paper scientifici. Nel 2020 un dibattito serio e onesto non è più sul “se” vi sia il cambio climatico, ma sul “che fare” per frenarlo. Discutere ancora sul “se” ha la stessa funzione che discutere con i terrapiattisti: perdere tempo. Media come il Foglio obbligano sistematicamente a retrocedere, e quindi a non agire. Non ingenuamente.

Infatti non si tratta né di libertà di stampa né di espressione. La diffusione di disinformazione che l’intera comunità scientifica mondiale considera irrilevante, dannosa e infondata, rappresenta e muove gli enormi interessi economici che il Foglio rappresenta. Negli USA il negazionismo viene finanziato dai petrolieri; in Italia lo deve finanziare lo Stato?

Qui il cerchio pare chiudersi. Quel giornale che fa della rivendicazione del merito e della meritocrazia la propria cifra ideologica, come mai non è all’altezza di confrontarsi col metodo scientifico? Quel giornale così meritocratico, su cosa basa l’autoattribuzione di merito? Nel mio piccolo, io figlio di nessuno, nella mia vita professionale ho già vinto quattro concorsi pubblici. Eppure un giornale come il Foglio si permette di denigrare sistematicamente il valore e il merito nel mondo dell’Università pubblica, che ha fatto la democrazia di questo paese almeno come la libertà di stampa. Mi vorrebbero far decurtare lo stipendio e forse far licenziare, ma sono contro la patrimoniale per chi guadagna multipli del mio stipendio. Intanto anche il loro stipendio lo paga il contribuente. Ma francamente loro, bravi per antonomasia, che conducono quotidianamente battaglie contro il pubblico, ma che lavorano per un giornale incapace di stare sul mercato, che meriti hanno?

L'articolo Dei manzoniani «venticinque lettori» de «Il Foglio», Laura Boldrini, il merito, il mercato, il finanziamento pubblico si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
A Diego mio fratello, a Diego Maradona, rivoluzionario latinoamericano e napoletano https://www.gennarocarotenuto.it/28724-a-diego-mio-fratello-a-diego-maradona-rivoluzionario-latinoamericano-e-napoletano/ Wed, 25 Nov 2020 18:31:46 +0000 http://www.gennarocarotenuto.it/?p=28724 Piango l’uomo prima del calciatore. Sei morto un 25 novembre, lo stesso giorno di Fidel Castro, tuo amico e compagno vero, non di un giorno. Rivoluzionario latinoamericano tu e lui, la Storia vi ha già assolto. Diego villero, Diego fattosi… Continua

L'articolo A Diego mio fratello, a Diego Maradona, rivoluzionario latinoamericano e napoletano si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>

Piango l’uomo prima del calciatore. Sei morto un 25 novembre, lo stesso giorno di Fidel Castro, tuo amico e compagno vero, non di un giorno. Rivoluzionario latinoamericano tu e lui, la Storia vi ha già assolto. Diego villero, Diego fattosi uomo in una Villa Miseria, Diego che poteva essere quello che è solo a Napoli. Diego nostro. Diego che non si è fatto napoletano, lo era. Diego Sud, Diego tutti i Sud del mondo. Diego il Ribelle contro il potere, fosse Blatter o Bush o tutti i Nord del mondo. Diego il grande uomo, gran-de uo-mo, che viene dal basso che più in basso non si può, per farsi D10S, il più grande di tutti.

Quanti insegnamenti ho ricevuto da te, Diego Maradona. L’uomo che cade e si rialza, nella sua grandezza e nelle sue fragilità. L’uomo che sa di essere grande e fragile. L’uomo che quando sbaglia, sbaglia contro se stesso e paga in prima persona. L’uomo che non abbassa la testa, l’uomo con la schiena dritta, che in quello Stadio Olimpico che ribolliva d’odio (irrisolvibile, irredimibile, imperdonabile) fischiando l’inno argentino, elevò in mondovisione il suo limpido, legittimo, a testa alta: “hijos de puta”. Sette anni sei stato il più odiato dagli italiani, in quanto napoletano. Se perdi in quanto Sud, ti malsopportano. Ma se vinci, morti d’invidia, non te lo perdonano. Ti sarebbe bastato tradire la città, ma tu non hai tradito. Perciò ti odiavano. Perciò ti amiamo.

Odiavano quel tuo corpo massacrato perché non potevano averlo. Odiavano quel corpo biopolitico, come quello del Che Guevara tatuato sul tuo braccio, massacrato di calci maligni e di infiltrazioni velenose, quel tuo corpo castigato dalle droghe, dall’alcool e dal cibo. Da qualche parte dovevi pur sfogare tanta grandezza. Quel corpo è quello dell’umanità come siamo, non quella borghesuccia, perbenista e ipocrita che ti disprezzava. In troppi oggi s’intesteranno la tua memoria, ma solo due nazioni possono rivendicarti come figlio: la nazione argentina e quella napoletana.

Solo chi è un analfabeta della cultura popolare di tutto questo pianeta può pensare che tu sia stato solo un calciatore. Sei stato la coscienza popolare dell’umanità ferita di tutti i Sud del mondo, che balbetta, zoppica, desidera, cade, ma non abbassa la testa. Sei stato l’unico nella Storia a vincere una guerra con due gol, in Messico, con la mano di D10S e il gol del siglo, entrambi necessari a ricacciare in gola tutta la boria e tutto il disprezzo dell’impero britannico, il Nord contro il Sud. Come cantano i Calle 13, Latinoamerica è “Maradona contra Inglaterra anotándote dos goles”. A Sud, con il tuo sinistro. Solo Sud, di sinistra. Eri Sud, solo Sud, Diego, fratello mio.

A Juan Da Silva, mi hermano, a Salvatore Pisano, mio fratello,
estén donde estén, hoy brinden con el Diego de la gente.

L'articolo A Diego mio fratello, a Diego Maradona, rivoluzionario latinoamericano e napoletano si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>
I tre tetti di cristallo sfondati da Kamala Harris https://www.gennarocarotenuto.it/28720-i-tre-tetti-di-cristallo-sfondati-da-kamala-harris/ Sat, 07 Nov 2020 17:43:29 +0000 http://www.gennarocarotenuto.it/?p=28720 Kamala Harris, raggiungendo la vice-presidenza degli Stati Uniti, come vice di Joe Biden, frantuma non uno ma ben tre tetti di cristallo. Quello di genere innanzitutto, quello razziale e quello migratorio. La rilevanza storica di questo risultato della senatrice californiana,… Continua

L'articolo I tre tetti di cristallo sfondati da Kamala Harris si trova su Gennaro Carotenuto.

]]>