Con la denuncia precisa del corrispondente dell’ANSA a Buenos Aires, per il quale vi sarebbe un “patto del silenzio” tra Bogotà, Roma e ONU, il caso dell’assassinio in Colombia di Mario Paciolla assume una dimensione inquietante. Ove così fosse ci troveremo di fronte a un caso perfino più grave di quello di Giulio Regeni con il coinvolgimento diretto delle autorità italiane nell’insabbiamento. Ho messo in sei punti le mie risposte al perché fin dall’inizio non si parli, o si parli pochissimo, dell’assassinio di Mario Paciolla, l’osservatore ONU ucciso in Colombia, la salma del quale è rientrata in Italia, nella sostanziale indifferenza dei media. Credo sia stato Peppino Impastato a dire che il silenzio uccida più della mafia. In assenza di verità e giustizia, la stampa che abdica al proprio ruolo sta uccidendo Mario Paciolla una seconda volta.
NB: articolo aggiornato il 26 luglio alle 8.30 del mattino; in particolare il punto sei.
1) In Italia, della Colombia, sicuramente il paese più complicato della regione, nessuno sa o capisce nulla. Nel momento nel quale c’era il maggior numero di rifugiati interni al mondo, oltre 4 milioni di persone, per lo più piccoli agricoltori espulsi dall’agroindustria con la violenza, l’ineffabile Omero Ciai da Miami per Repubblica rivendicò che solo Ingrid Betancourt fosse notiziabile (perché donna piacente, aristocratica, vagamente progre, europea, fashion in breve). Alla guerriglia marxista invece era addebitabile tutto (anche se il 97% dei crimini fu calcolato come commesso dall’esercito e dai paramilitari di destra) come spiegazione onnicomprensiva di un paese che anche allora non interessava.
2) La produzione della notizia in italiano sull’America latina, della notizia come valore e quindi dell’interesse, è sostanzialmente eterodiretta. Non basta il fatto in sé. È necessaria una costruzione della notizia che risponda a precisi interessi, politici ed economici, più o meno commendevoli. Quando si dice che se Mario Paciolla fosse stato ucciso in Venezuela starebbe in prima pagina, non è un mero elemento polemico. Pensiamo ai fatti di Cúcuta, gli aiuti umanitari fatti bruciare in Colombia solo per dare la colpa a Chávez. O pensiamo ai falsi brogli in Bolivia, inventati di punto in bianco per liberarsi dell’indio Evo Morales, e addebitati alla vittima per giustificare il golpe (che si sta perpetuando nell’indifferenza – anzi, con la complicità – dei paladini della liberal-democrazia). Nei due casi citati la stampa internazionale ai massimi livelli ammise le proprie responsabilità di aver veicolato notizie false e tendenziose, facendo un certo rumore: gli aiuti li avevano bruciati gli aiutanti e i brogli non c’erano mai stati. Quella italiana per lo più preferì glissare, evitando di inserire elementi di dubbio in una narrazione nella quale i governi di centro-sinistra in America latina sono una sorta di “male assoluto” nel quale la parolina chiave è sempre “populista” e i Macri, i Bolsonaro, gli Uribe o il suo erede Duque “saranno pure dei figli di puttana, ma sono sempre i nostri figli di puttana” (cit).
3) Mario Paciolla era italiano. Difettato, essendo napoletano, ma italiano. Sandro Ruotolo, nella sua nobile interrogazione parlamentare, ha distinto tra una rilevante mobilitazione nella città di Napoli e un’indifferenza nazionale. Ma se la sua morte non è un fatto locale, riguarda l’Italia più di altri paesi occidentali. Il problema è allora la copertura dei fatti latinoamericani, l’abitudine di quart’ordine a copincollare la stampa anglosassone o, al massimo, nel caso latinoamericano, El País di Madrid e poco più. Quindi, i nostri baldi giornalisti, nel caso di Mario Paciolla, per fare con dignità il loro lavoro, sarebbero dovuti andare, in un posto in culo al mondo, ignoto, pericoloso, malsano, forse ostile. Come sappiamo, nessun giornale ha avuto la dignità di spendere un Euro per andare a vedere “come muore un italiano”. Non è un dettaglio. È un vulnus grave al diritto/dovere costituzionale di informare ed essere informati. Vado a memoria, l’ultima volta che qualcuno si è mosso per un fatto di cronaca in America latina, fu per l’arresto di Cesare Battisti in Bolivia. Se quel caso politico era di notiziabilità oggettivamente superiore, qual è il limite inferiore della notiziabilità per i giornali italiani? Sappiamo che la morte di Mario Paciolla era al di sotto di quella soglia.
4) Una figura come #MarioPaciolla appare cristallina e impermeabile alle polemiche politiche contingenti. Non è stato rapito e quindi non si può speculare se il governo paghi il riscatto, non è donna per “darle della zoccola”. Non è un irregolare ma anzi, è un professionista dalla schiena dritta, che forse ha l’handicap di odorare di sinistra di una volta e di militanza sociale. Mi permetto di dire che Mario Paciolla è uno di noi, una parte di me e dei molti che leggono da vent’anni questo blog. Mario era una di quelle migliaia di giovani che sono partiti per il Continente ribelle per insaziabile sete di conoscenza e irriducibile sdegno per l’ingiustizia. Sono, siamo andati, dall’ESMA a Buenos Aires da dove volavano via i desaparecidos, al Campo algodonero di Ciudad Juárez, dove le croci rosa indicano le donne vittime di femminicidio. Se non abbiamo cambiato il mondo, abbiamo però cambiato le nostre vite. Ora che è stato assassinato, Mario Paciolla non interessa alla stampa di destra per attaccare il governo, ma non può essere adottato come martire da quella più o meno governativa, che da decenni ha abdicato sia dall’ansia di conoscenza che da quella di giustizia per appiattirsi su stereotipi e interessi e che si è sistematicamente schierata contro qualunque cambiamento in America Latina. Peggio per lui, se non era un avventuriero. Peggio per lui se era un professionista qualificato, che faceva un lavoro difficilissimo, sotto contratto dell’#ONU. Vallo a smontare uno così; meglio ignorarlo, farlo dimenticare. Anche Giulio Regeni fu smantellato, trattato da imberbe studentello… Per lui come per Mario la logica del “se l’è cercata” è sempre pronta nella sua infamia, e anche per lui fu necessario molto tempo e lavoro perché andasse in prima pagina e fosse adottato dalla parte civile del paese. DEVE succedere lo stesso per Mario Paciolla.
5) Fin dall’inizio proprio la pista interna ONU per l’omicidio (contrasti interni, malversazioni o altri delitti che Paciolla avrebbe denunciato o potuto denunciare) non solo non si può escludere, ma col passare dei giorni si è fatta addirittura plausibile. Ma di nuovo, andrebbe lavorata, bisognerebbe parlare con chi ha scritto un importante contributo per El Espectador (qui in italiano), reperire i contatti con chi stava lì con Mario e indagare… Ma a chi conviene mettersi in un ginepraio così grande, quando ci sono sempre stereotipi pronti all’uso? Il Mattino di Napoli se l’è sbrigata con “l’ombra lunga dei narcos”, che è un po’ come dire Napoli/camorra. Certa stampa di movimento addebita ai paramilitari vicini all’ex-presidente Uribe e all’attuale inquilino della Casa de Nariño, Duque, l’omicidio. Da destra qualcuno butta sul piatto le FARC, trinariciuti ai quali per anni è stato addebitata qualunque cosa. Troppo facile in entrambi i casi. Onu, Narcos, Paracos, esercito, guerriglia, magari qualcuno ci azzecca, ma la verità è che nessuno sa nulla e interpretano la realtà alla luce di ideologia e stereotipi.
6) Quella che è sicura e documentabile è l’inerzia. Inerzia dei media, inerzia dei governi. Soprattutto, ed è stata oggetto di precisa denuncia da parte del Senatore Ruotolo, inerzia del datore di lavoro di Mario Paciolla, niente di meno che l’Organizzazione delle Nazioni Unite. Maurizio Salvi, bravo corrispondente ANSA da Buenos Aires, molte spanne sopra qualunque corrispondente italiano mainstream nella regione, va ben oltre e formula una precisa e gravissima denuncia:
Salvi, non fa una supposizione; “l’ho provato sulla mia pelle”, scrive, facendosi testimone diretto. Un brivido corre nella nostra schiena: siamo di fronte all’ennesimo muro di gomma della storia italiana? Sostiene che il trasferimento della salma di Mario Paciolla in Italia sia avvenuto con la “consegna di segretezza assoluta” e chiede conto del perché. A mia domanda, risponde, cfr. tweet qui sopra, che vi sarebbe un preciso patto del silenzio tra i governi italiano e colombiano per occultare la verità sulla morte di Mario Paciolla, sugellato dal silenzio dell’ONU, della procura e dell’Ambasciata a Bogotá. È una denuncia di una gravità inaudita. Se sull’ONU e sul governo Duque si può congetturare, che interesse avrebbe il governo italiano in tale patto scellerato? Il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, si sarebbe intrattenuto per un’ora con la famiglia Paciolla all’arrivo della salma. Non chiediamo di sapere il contenuto della conversazione privata, ma è indispensabile sapere che parte in commedia sta giocando la Farnesina. E con molto rispetto chiedo anche alla famiglia Paciolla: corrisponde al vero che il perito nominato dall’Ambasciata italiana, e che ha presenziato all’autopsia in Colombia, sarebbe stato in qualche modo disconosciuto e in nessun modo rappresenterebbe la famiglia?
Infine, su una cosa chi scrive non è d’accordo con Salvi, che sembra giustificare i media. Di fronte alla segretezza, all’aberrante patto del silenzio, il dovere della libera stampa è alzare il livello della denuncia, investigare, tenere aperto il caso. Se fosse vero che ci sia un appeseament da parte delle autorità italiane, saremmo di fronte a un fatto ancora più inquietante. La morte di Mario Paciolla non è più un nuovo caso Regeni, ma è già più grave del caso Regeni perché vi sarebbe un coinvolgimento diretto delle autorità italiane (solo a Bogotà? Anche a Roma?) nell’insabbiamento del caso.
Alla società civile, a quelli stessi che si sono mobilitati per la verità su Giulio Regeni, sapendo che le nostre voci sono flebili e che anche stavolta sarà una battaglia lunga, frustrante, ma necessaria, non resta che continuare a esigere verità e giustizia per Mario Paciolla.