Tra i carri armati di Sebastián Piñera e i voti per Evo Morales, la partita sempre aperta in America latina

NEW YORK – Solo il Cile riesce ad accendere uno spot informativo sull’America latina nuovamente in fiamme, felicemente restituita al suo destino di essere governata dalle destre, col bastone e senza carota, rispetto all’anomalia dei governi di centro-sinistra definiti da Donald Rumsfeld “l’asse del male latinoamericano da colpire”. E colpita, non con le bombe, ma con un uragano di propaganda. Durante tutto il XXI secolo i media mainstream hanno costruito una realtà virtuale latinoamericana con la quale hanno millantato che i governi di destra – eredi delle dittature e disastrosi esecutori delle politiche neoliberali di quegli anni e dei successivi – sarebbero stati la panacea di tutti i mali dell’America latina, dei quali sarebbe colpevole la sinistra, in particolare quella che si è fatta con coraggio carico del disastro del “Washington Consensus” neoliberale, dei bambini morti di fame, della corruzione più sfrenata, dell’imperio del narco, della distruzione dell’ambiente, dell’estinzione della cosa pubblica in un futuro neoliberale dove solo chi ha da pagare ha diritto all’aria che respira. Non esagero: a Cochabamba in Bolivia, quando governava l’avversario di Evo Morales, Carlos Mesa, si multava chi raccoglieva l’acqua piovana perché questa rientrava nei beni privatizzati. Le sinistre di governo negli ultimi vent’anni non avevano né tutte le risposte, né tutte le capacità. Qualcuno si è corrotto, ha commesso errori, come il Venezuela indica, ma tutti i nodi, tutte le ingiustizie del Continente possono solo essere esaltate, indurite, rese ancora più drammatiche dai governi di destra verso i quali i media occidentali sono così benevoli. Lo conferma proprio l’esplosione cilena, il paese perfetto in tutte le descrizioni, il paese dell’ordine, dell’efficienza e della buona amministrazione, ma dove non vista covava la cenere della più profonda ingiustizia sociale, di un sistema che per funzionare, efficiente, pulcro, perfetto, doveva escludere ogni giorno più cittadini, senza scuola, senza salute, senza pensione, e convincere gli esclusi che fosse per loro demerito.

Capofila occidentali della narrazione conformista di demonizzazione della sinistra latinoamericana come male assoluto, sono stati in questi anni El País di Madrid, house organ delle multinazionali spagnole, e CNN per chi mastica l’inglese, paradossalmente due media considerati progressisti a casa loro. Nella regione, invece, la narrazione da destra è totalmente dominante. Ogni paese ormai ha decine di canali all news, locali o nazionali, che per guadagnare vendono ossessivamente 24 ore su 24 uno stesso prodotto in due punti: 1) criminalità di strada in interminabili dirette, alla quale bisogna rispondere col pugno di ferro, offerto ovviamente dai politici di destra, e 2) criminalità politica dove il sostantivo “sinistra” è usato come sinonimo di corruzione e contro la quale tutto è lecito, incluso golpe militari considerati una buona soluzione per gli incivili popoli latinoamericani. Lo abbiamo visto in Venezuela con Guaidó, dove a tanti sinceri democratici non sembrava poi una cattiva idea tirar fuori i militari dalle caserme. Il tutto volto a silenziare le democrazie latinoamericane, che restano tra le più vivaci e dialettiche democrazie al mondo, con un dibattito politico tutt’altro che monocorde o ridotto al “pensiero unico”, come da troppo tempo accade anche in Europa.

Fuori della narrazione mediatica della destra buona venuta a salvare il continente dalla sinistra cattiva, c’è però la realtà. La realtà che è così palese quando vediamo Sebastián Piñera a Santiago, che manda in strada i carri armati e i guanacos con gli idranti esattamente come faceva Pinochet, e si dichiara lugubremente “in guerra” contro chi protesta. E in guerra si uccide, come gli 11 morti già testimoniano. La realtà di cosa è stato voler riconsegnare alla destra l’America latina è quando pensiamo al processo farsa contro Lula, che ha messo in carcere con accuse infamanti un uomo degno, che fino al giorno prima era candidato al premio Nobel per la pace ed era rispettato in tutto il mondo. Bisognava liberarsi di Lula a qualunque prezzo, non preoccupandosi di consegnare il Brasile, una delle prime dieci potenze mondiali, a un criminale e fanatico come Jair Bolsonaro (tra una settimana sarà un anno), che rivendica la distruzione dell’Amazzonia, inneggia alla tortura e che ha già superato i 5000 omicidi extragiudiziali, la pena di morte restaurata, anzi liberalizzata, anche in un continente come l’America latina dove la pratica di giustiziare sul posto presunti delinquenti ha storia antica. Lula Da Silva, per quanto El País o CNN non vogliano vederlo, è oggi il più importante prigioniero politico al mondo. E la realtà è anche Lenín Moreno in Ecuador, che vinte le elezioni con i voti della sinistra di Rafael Correa, si è appiattito sulla destra più rancida come unica possibilità di restare al potere, di nuovo massacrando i movimenti sociali, già umiliati con la distruzione delle conquiste degli ultimi anni. La realtà è il presidente della Colombia Iván Duque, che sta al governo solo per distruggere il processo di pace con la guerriglia per conto di agroindustria e narco (entrambi esportatori), coprendo gli omicidi di centinaia di leader contadini, indigeni, sindacali, ambientalisti da parte dei paramilitari di destra che non hanno mai smesso di farne scempio, anche dopo che la foglia di fico della guerriglia è caduta. Il paramilitarismo non è mai stato una risposta alla guerriglia, semmai era vero il contrario.

La realtà è la fuga da interi paesi (certo anche dal Venezuela, ma quello sta in prima pagina da sempre) di milioni di centroamericani, salvadoregni, guatemaltechi, honduregni. Eppure si parla solo dei nicaraguensi, che forse si libererebbero volentieri di un dinosauro come Daniel Ortega, a patto di offrir loro un’alternativa che non sia esclusivamente quella fondomonetarista da rivoluzione colorata, con i bei ragazzi bianchi delle università private sempre in favor di telecamera. Il Centro America intero, una regione che ha più abitanti dell’Italia, è allo sfacelo tra crimine organizzato, corruzione diffusa e crisi economica che genera un’emigrazione di massa e massive proteste popolari. Tutta la regione è governata da governi ortodossi, e ligi al “Washington Consensus”, ma filtrano solo le proteste contro l’unico governo di (presunto) diverso colore politico. L’opinione pubblica può essere distratta, ma non è così ingenua da non leggere il gioco.

In particolare allora la realtà è quella dell’Honduras, il più dimenticato di tutti, una vera Macondo del XXI secolo. La repressione violenta e assassina dei movimenti sociali è l’unico puntello che tiene al potere Juan Orlando Hernández. Qualunque discorso sull’illegittimità vera o presunta di Nicolás Maduro o perfino di Evo Morales oggi, cade di fronte alla persistenza al potere di JOH, uno scandalo mondiale che – chissà perché – non scalda i cuori dei democratici occidentali. Eppure sono dieci anni che i movimenti sociali honduregni protestano nell’indifferenza del mondo. Il martirio di Bertha Cáceres è solo uno tra cento, da quando nel 2009 Mel Zelaya fu rovesciato dal golpe Micheletti, il dittatore di Bergamo Alta, al quale arrivò perfino il plauso della Lega, che riconosceva come proprio figlio quel violatore di diritti umani. La verità è infine il fallimento fragoroso dell’Argentina di Mauricio Macri, che in meno di quattro anni ha distrutto lo stato sociale costruito dai Kirchner, e che aveva messo fine allo scempio delle morti per fame in un’immensa pianura fertile qual è il grande paese australe e, lungi dal risanare l’economia, l’ha riportata al bordo dell’abisso di un nuovo default.

Tra una settimana si vota in Argentina e toccherà probabilmente ad Alberto Fernández, solo omonimo di Cristina che gli farà da vice, fermare l’ultimo disastro neoliberale, cercando di tornare a garantire all’immensa schiera degli esclusi almeno il minimo, quelle necessità che la superbia del macrismo era incapace perfino di vedere. Ed eccoci a una nuova catarsi. Se i Piñera, i Moreno, i Bolsonaro, gli Hernández pensano di potersi permettere di restare al potere solo con la repressione, contando sull’omertà del complesso mediatico monopolista internazionale, i Fernández stanno per riportare al governo il kirchnerismo in Argentina dopo appena quattro anni di opposizione. Evo Morales, appena scalfito dalle polemiche sul quarto mandato (ma è al governo da meno tempo di Angela Merkel), ha rivinto le elezioni contro quel Carlos Mesa che fu vice-presidente di Sánchez De Lozada, che per fuggire in elicottero da La Paz, dovette lasciare una scia di sangue di oltre settanta morti. Di questo parliamo quando parliamo della destra in America latina, che tanto piace a CNN o a El País, oltre ovviamente al Corriere e a Repubblica. La sinistra indigenista nella Bolivia di Evo, con la sua ammirevole stabilità economica e politica, e che nemmeno il regime mediatico mainstream riesce a mettere in discussione, ha compiuto in questi anni un tratto importante del percorso di superamento del regime di apartheid durato 500 anni. Lo fa senza rinnegare alcunché e tracciando la strada di una persistente consapevolezza che il cammino intrapreso da Néstor, Chávez, Lula, Fidel, Pepe Mujíca e decine di milioni di militanti – anche con la destra al governo i movimenti sociali latinoamericani non hanno mai ammainato bandiera – alla fine dello scorso secolo non era un cammino tra i tanti. Era l’unico cammino democratico possibile: integrazione delle masse e unità latinoamericana.