L’America latina e gli USA al tempo di Donald Trump e di America First

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Che vuol dire per l’America latina quel mantra “America first”, declinato ossessivamente da Donald Trump? Il neo-isolazionista Trump, che non ammetterebbe mai che anche gli immigrati siano americani, vuole un muro che, come a Berlino, divida in due il Continente e sostiene che gli accordi di libero commercio perseguiti sistematicamente dagli USA vadano smantellati. In questi mesi ha ribaltato sistematicamente la realtà, rappresentando le relazioni continentali e accordi come il NAFTA come sfavorevoli agli Stati Uniti. Ma modificare tali accordi vuol dire far saltare le basi della stessa idea di “Sicurezza nazionale” degli USA. Semplicemente non è credibile.

Quell’America First non vuol necessariamente dire che la propaganda di Trump, la volgarità dello sciovinismo, l’aggressività razzista e la muscolarità del presunto protezionismo esibito si convertano in cambiamenti reali, in particolare in termini di politica industriale. I temi saranno altri: il concetto di “aiuti di Stato” con un’accezione così negativa da spacciarli come crimine contro l’umanità è una cosa degli ultimi decenni; fino all’altro ieri era “politica industriale”. Orbene, non è di questo che mi preoccuperei per quanto concerne Trump e l’America latina, e neanche di una drôle de guerre a colpi di dazi doganali, bensì del revanscismo razzista contro gli immigrati, del ritorno delle cannoniere per risolvere le crisi nel continente (a partire dal Venezuela), del contagio autoritario e dell’ulteriore peggioramento del rispetto dell’ambiente, miniere a cielo aperto, disboscamento, agrochimici, con i quali il Continente continuerà a servire il mantenimento dell’American way of life.

Anche se piace moltissimo agli elettori repubblicani l’idea vittimista e razzista di essere danneggiati dal capro espiatorio rappresentato dal lavoratore latinoamericano, è ben difficile che i cambiamenti possano essere concreti. Qualcosa di facciata sarà fatto, colpendo magari la giapponese Toyota e non le americane GM o Ford o riportando indietro qualche manifattura che pagherà stipendi così bassi che alla fine saranno gli immigrati ad accettare anche al di là della frontiera tra Nord e Sud del mondo. Di sicuro, come un governo di miliardari e membri di cda di multinazionali si affretterà a testimoniare, non metterà in discussione la costituzione immateriale che considera l’apertura dei mercati latinoamericani, sia in entrata che in uscita (con quell’enorme differenza di valore aggregato della quale gli USA si beneficiano, beati loro), come una questione di “Sicurezza nazionale” per la quale se d’uopo schierare le cannoniere, come è più volte accaduto negli ultimi 120 anni.

La cosiddetta sicurezza degli Stati Uniti dipende – e continuerà a dipendere anche con Trump – dalla disponibilità di materie prime, rinnovabili e non, che provengono dal resto del Continente e dalla capacità di garantire la sicurezza degli investimenti in tutti i settori economici, a cominciare dai servizi e dai settori privatizzati in America latina negli ultimi cinquant’anni sotto l’imperio del Fondo Monetario Internazionale e del cosiddetto “Consenso di Washington”. Quella USA rispetto all’America latina, che Trump col suo discorso vittimista promette di ribaltare, è una posizione non solo vantaggiosa ma largamente dominante, che difficilmente può essere messa a repentaglio dall’idea di riportare assemblaggio e manifatture dal Messico all’Ohio solo per rimettere all’opera cinquantenni espulsi dal sistema produttivo non certo per colpa del dumping dei colleghi latinoamericani.

Quando Trump promette di riportare in patria il manifatturiero, disvela i limiti produttivi, tecnologici, amministrativi e perfino generazionali del modello, per i quali le produzioni industriali sono andate altrove espellendo, è vero, lavoratori bianchi conservatori, elettori di Trump, ma procurando agli Stati Uniti, alle classi dirigenti di questi l’aumento delle disuguaglianze più grandi della storia, con dividendi colossali, e a tutto il paese la possibilità di prolungare per decenni l’insostenibile, culturalmente e ambientalmente, stile di vita che sta depredando il pianeta e che Donald Trump è ben lungi dal voler modificare e anzi promette di garantire a ogni prezzo. Senza le montagne di inquinantissima soja transgenica brasiliana e argentina, come può essere garantito agli statunitensi uno dei consumi di carne più alto al mondo? Quella che il modello neoliberale ha imposto all’America latina è stata finora una divisione del lavoro perfettamente neocoloniale: importano materie prime che gli USA trasformano o raffinano direttamente (pensate al suicidio del petrolio messicano), rinnovabili e non, importano manufatti a basso valore aggiunto da luoghi dove il costo del lavoro è relativo, ed esportano tecnologia e servizi nei settori dove ancora questo vuol dire profitti e buoni posti di lavoro.

Perpetuare tali vantaggi è la costituzione immateriale del neoliberismo, del nuovo secolo americano neoconservatore, dei trattati di libero commercio, che Donald Trump promette di smantellare, ma che il governo da lui stesso nominato difenderà col coltello tra i denti. Nonostante dall’Italia i media staranno soprattutto attenti all’evoluzione delle relazioni con Cuba e si spelleranno le mani per un possibile intervento in Venezuela, la cartina tornasole delle relazioni tra l’amministrazione Trump e l’America latina è soprattutto nella regione nordamericana, nelle relazioni col Messico e nel promesso smantellamento del NAFTA.

La politica statunitense è stata in questi decenni tesa al perseguimento della sicurezza e dell’aumento dell’interscambio (diseguale) col grande vicino del Sud attraverso il lavoro ai fianchi dell’indebitamento che ha smantellato gli elementi nazionalistici, autarchici e di difesa dello stato sociale che il Messico rivoluzionario, da Lázaro Cárdenas fino agli anni Settanta, aveva mantenuto per poi lentamente cedere, con il passaggio del NAFTA (il trattato di libero commercio nordamericano) nel 1994 a fare da punto di non ritorno. Per quanto corrotti e servili siano i governi messicani, da Fox a Calderón a Peña Nieto, il Messico resta però un grande paese di cento milioni di abitanti che è già una polveriera che non è esplosa solo perché le rimesse degli emigrati si sono trasformate nella prima fonte di divisa pregiata per un’economia dove ormai il dollaro si cambia a 22 pesos e la benzina costa poco meno che in Italia, nonostante gli stipendi siano di un quinto.

Donald Trump sostiene che da oggi l’unica bussola sarà l’interesse “americano”; ma è davvero interesse americano mettere a rischio la permanenza degli oltre tre milioni di indocumentati (non pensiamo ai legali o a quelli che hanno ottenuto la cittadinanza) che lavorano negli USA e che Trump ha promesso di espellere immediatamente? È sicuro di poter incassare dei dividendi non propagandistici e che il suo partito vi vedrà vantaggi reali? Sono i latinos destinati a diventare il nemico interno negli USA da perseguitare? A che prezzo? Non solo; è credibile lo smantellamento della cosiddetta Mexamerica, a Nord e a Sud del Rio Bravo, una regione economicamente e socialmente profondamente integrata dove vivono quasi cento milioni di persone tra statunitensi e messicani e dove una separazione che vada oltre la persecuzione dell’immigrazione clandestina avrebbe la stessa costosa insensatezza di tornare a erigere una frontiera tra Francia e Germania.

La repellente e razzista retorica antimessicana di Trump può causare infiniti lutti agli immigrati messicani e centroamericani, può separare madri da figli minorenni, criminalizzare la povertà, espellere a man salva distruggendo sogni e vite, far perfino chiudere qualche fabbrica a Mexicali o a Nuevo Laredo ma non potrà cambiare la sostanza dell’interesse nazionale statunitense (anche del governo Trump) che per affrontare la competizione globale con la Cina (alla quale non pensa certo di prepararsi col solo appeasement con Putin) può solo tornare a perseguire l’obiettivo neoconservatore -respinto nel 2005 a Mar del Plata dalla forza dei movimenti sociali latinoamericani, da Chávez, Kirchner e Lula- di trasformare la regione in una immensa maquiladora che servisse l’economia statunitense. Di conseguenza, tutta l’impalcatura di quanto promette di fare il neopresidente rispetto alla regione nega le stesse prospettive globali della superpotenza americana; è propaganda o, per usare il linguaggio di Trump: bullshit.

Detto questo, sarebbe ingenuo non rilevare come Donald Trump non rilevi un’insofferenza di destra al modello, laddove le ben più solide critiche da sinistra si sono elevate da tempi non sospetti. Declinandolo in chiave latinoamericana non sarebbe la prima volta che un paese centrale forzasse contemporaneamente il protezionismo (con l’import) e il liberoscambismo (con l’export) secondo convenienza. Ovvero Trump potrebbe provare ad ottenere ancora più vantaggi cercando di avere la botte piena e la moglie ubriaca. Per i paesi periferici, in particolare per quelli che hanno fatto più propria la logica del modello, penso in particolare alla costa pacifica, al Cile, alla Colombia, al Perù, sarebbe una retrocessione franca in termini di opportunità di inserimento internazionale essendo gli USA un partner essenziale. La questione è che anche in questo senso ci troviamo di fronte a un’arma spuntata rispetto alla situazione di una ventina di anni fa. La leadership riconosciuta agli USA è un fatto politico e culturale (che non è affatto poco), ma in termini di rapporti economici gli effetti della globalizzazione e in particolare il ruolo della Cina come compratore e anche come investitore, perfino nelle infrastrutture, negli ultimi vent’anni ha cambiato molte prospettive. Pensiamo ad esempio al rame cileno, paese avanzato e pienamente ligio al modello. Se negli anni Settanta il compratore USA monopolizzava gli acquisti fino a poter imporre al Cile un governo, oggi neanche un terzo del rame cileno finisce negli USA e la Cina ne è consolidatamente il primo acquirente. In totale oggi solo un quinto dell’export latinoamericano si dirige verso gli USA, meno al Sud, di più mano mano che ci si sposta verso Nord; l’aumento dei dazi che potrebbe da subito imporre Trump, sarebbe grave per l’America latina, come testimonia l’indebolimento di tutte le divise da novembre in qua, ma anche i paesi dipendenti oggi avrebbero qualche carta in più da giocare sul mercato globalizzato.

Sul piano politico, Trump crea una sinergia con le nuove destre anti-integrazioniste. Queste però non possono calcare la mano in termini di supinità a un inquilino della Casa Bianca che tanto disprezzo dimostra per i lavoratori della regione. Trump è alleato naturale di Macri, del golpista brasiliano Temer, non è particolarmente interessato al processo di pace con Cuba, o almeno vuol giocare una partita più muscolare rispetto a Obama, contando sull’irreversibilità di tale processo, né al completamento di quello colombiano sul quale tanto aveva investito il concerto latinoamericano. Continuerà a militarizzare il Centro America e non ci sarà verso di stabilire politiche di riduzione del danno rispetto al narcotraffico, mentre è senz’altro interessato a soffiare sul fuoco della crisi venezuelana.

In questo senso, e pur con le difficoltà enunciate, in particolare rispetto al ruolo della Cina, Trump continuerà a tenere in piedi le due gambe dell’antica dottrina Monroe; cercare di limitare il ruolo nella regione di altre potenze, la stessa Russia, la Cina, l’India, e frammentare i latinoamericani avendo come bersaglio l’intera costruzione integrazionista del decennio passato, basata su UNASUR, CELAC e ALBA, oltre che sul MERCOSUR. Di conseguenza poco di nuovo: il mondo ha bisogno di una multipolarità che includa anche un polo latinoamericano; gli Stati Uniti, che governi un bellicoso Bush, il più prudente Obama o Trump poco cambia, che la retorica pubblica sia quella neoliberale, o che si millanti una ritirata protezionista, hanno interesse a che ciò non succeda e l’America latina continui a essere bismarckianamente un’espressione geografica e non politica.

Del resto Trump entra alla Casa Bianca nel momento peggiore per la regione, nel declino della fase integrazionista del decennio passato. L’America latina oggi è più debole. Le destre sono tornate o si apprestano a tornare a governare, ma i movimenti sociali e le esperienze politiche del primo quindicennio del XXI secolo rappresentano amplissime minoranze anche dove, come in Argentina, i blocchi popolari hanno perso elezioni senza esserne però usciti delegittimati. Tornare a vincere non sarà facile, ma siamo ben lungi dalla disperazione degli anni Novanta nell’epoca del pensiero unico.

Delle due l’una: o il presunto neoprotezionismo di Trump si accompagnerà al proliferale di regimi autoritari di nuovo tipo nella regione, con appoggio USA in una nuova guerra fredda senza URSS, oppure può finire per esaltare l’affinità di interessi regionali che restano profondamente diversi da quelli statunitensi. L’aggressività del leader populista nei confronti della regione difficilmente gli procurerà simpatie in America latina, tanto nel campo popolare come in quello che un tempo si sarebbe detto “borghese”. Lo sciovinismo di Trump – che piace tanto ai suoi elettori ma che suona odioso e irrazionale nel Continente come mai prima d’ora era accaduto a un inquilino della Casa Bianca – rappresenta dunque un’opportunità e un pericolo. O le forze integrazioniste sapranno approfittarne rinnovandosi e riprendendo il cammino del progresso, o anche in America latina (si è visto con il repentino declinare del consenso delle classi medie per l’esperienza petista in Brasile) si apriranno praterie per demagoghi parafascisti.