Questo articolo è stato pubblicato in originale sul settimanale Brecha di Montevideo
Il primo maggio, occupando in maniera per niente casuale una data tradizionale del mondo del lavoro e della sinistra laica, Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II, sarà beatificato appena sei anni dopo la morte. Per la chiesa cattolica è uno scalino necessario verso la santità.
Anche se circa due milioni di fedeli starebbero viaggiando verso Roma in queste ore, l’opera di Wojtyla mantiene aspetti polemici, rigorosamente dimenticati in questi giorni per le sue omissioni nelle denunce dei casi di pedofilia, per la sua alleanza con le dittature latinoamericane e con prelature discusse come l’Opus Dei e i Legionari di Cristo o per la sua guerra senza quartiere contro la modernità, la chiesa di base e lo spirito del Concilio Vaticano II.
Entrate nella cattedrale di San Salvador, in realtà poco più di una parrocchia di periferia rispetto allo splendore dell’Antigua Guatemala, la sede della Capitania dell’impero, e guardate alla destra della navata centrale. Non confondetevi! Quel sacerdote sorridente rappresentato in quella gigantesca pittura non è monsignor Oscar Arnulfo Romero, il vescovo assassinato nel 1980 dagli squadroni della morte del governo di ultradestra. Quel prete, lo sguardo mansueto del quale è impossibile evitare di incrociare, è San José María Escrivá de Balaguer, fondatore dell’Opus Dei, l’organizzazione che riunisce cattolici eccellenti e della quale Karol Wojtyla fu sdoganatore e sicuro alleato politico. Tanto alleato da santificare il polemico sacerdote basco senza considerare la vicinanza di questo alla dittatura franchista spagnola, l’antisemitismo, lo scandaloso acquisto di un titolo nobiliare, le denunce sulla manipolazione dello stesso processo di santità. Quello che importava era offrire un santo alla classe dirigente cattolica, fieramente anticomunista, che interpretasse un cattolicesimo nel quale denaro e potere fossero celebrati come un cammino verso la salvezza.
Per trovare segni che ricordino monsignor Romero, il viaggiatore che visiti El Salvador –tra questi Barack Obama arrivato fin lì lo scorso marzo- deve cercare una cappellina, spesso chiusa, collocata all’esterno di una cattedrale rigorosamente controllata dall’Opus. Anche se i fedeli umili e il piccolo mercatino all’esterno è tutto per Romero, la gloria di dio –del dio ufficiale- appare tutta riservata a Escrivá.
Escrivá, santo; Wojtyla (per ora) beato; e Romero… niente. Pochi mesi prima del suo martirio, il 7 maggio del 1979, il vescovo centroamericano aveva presentato a Giovanni Paolo II un dossier sulle violazioni dei diritti umani nel suo paese. Tra i documenti vi erano le foto del corpo di un giovane sacerdote torturato e assassinato dai militari. Dall’udienza Romero era uscito dicendosi “costernato” per il gelo col quale la sua denuncia era stata accolta dal papa: “deve avere relazioni migliori col suo governo” furono le categoriche parole del pontefice.
Con quelle parole il cammino verso la santità aveva smesso di essere un mistero per rispondere a una logica politica terrena che in America latina per Karol Wojtyla significò l’alleanza con molti Augusto Pinochet e con i carnefici del Piano Condor. Così si spiega perché, dopo 31 anni, il processo di beatificazione di Romero si sia perduto negli archivi della Congregazione per le cause dei santi, mentre la causa del fondatore dell’Opus seguiva un cammino accelerato. Molteplici testimoni, tra i quali Ernesto Cardenal, sacerdote e ministro della Cultura nel Nicaragua sandinista, raccontano che lo stesso Wojtyla spiegò pubblicamente che la beatificazione di un martire come Romero non era opportuna perché “sarebbe stata strumentalizzata dalla sinistra”.
Allo stesso cammino percorso da Escrivá era destinato un altro alleato di Wojtyla e tra gli uomini simbolo della chiesa anticonciliare, Marcial Maciel, il fondatore dei Legionari di Cristo, una sorta di Opus alla destra dell’Opus, oggi molto vicina al governo di Felipe Calderón in Messico. Anche se è dimostrato che dal 1976 il futuro papa fosse informato di severe critiche a Maciel, anche questo era destinato a una santità fast track, nonostante le sue due concubine, i vari figli che personalmente stuprò per anni, le accuse di furto, malversazioni, appropriazioni indebite e altri delitti. Solo dopo la morte di Wojtyla Maciel smise di essere un santo vivente e solo dopo la scomparsa di questo, avvenuta nel 2008, la chiesa cattolica si vide obbligata a smettere di coprire le colpe di questo. Con Maciel si era ripetuta per decenni la pratica wojtylista del silenzio assoluto: il papa era con certezza informato e aveva svolto un ruolo attivo nell’occultare i crimini di Maciel, che andavano ben oltre gli abusi sessuali come quelli di centinaia di preti pedofili, cominciando dal cardinale austriaco Hans Hermann Groër e lo statunitense Bernard Law.
Così domani sarà beatificato il Wojtyla alleato dei Maciel e degli Escrivá, nemico di Romero, lasciato solo nel suo martirio, e implacabile cacciatore di streghe nella chiesa cattolica latinoamericana uscita dal Congresso Eucaristico di Medellin del 1968 con quell’intollerabile “opzione preferenziale per i poveri”. Fu contro la Teologia della Liberazione che Giovanni Paolo II compì il primo dei suoi innumerevoli viaggi all’estero. Nel gennaio del 1979 andò a Puebla, Messico, per la terza conferenza episcopale latinoamericana, alla quale impresse una svolta duramente conservatrice. Da allora centinaia e centinaia di religiosi progressisti furono rimossi e ridotti al silenzio da Giovanni Paolo II. Il primo fu uno dei massimi teologi conciliari, Bernard Häring. Tra le figure di maggior spicco vi fu Pedro Arrupe, preposito generale gesuita, il vescovo dei migranti e delle prostitute, il francese Jacques Gaillot, che umiliò assegnandolo all’inesistente diocesi di Partenia, al vescovo di San Cristóbal de las Casas, Samuel Ruiz, sensibile al mondo indigeno e zapatista.
È così che tra gloria e fumi d’incenso si arriva ad una beatificazione ritardata il minimo indispensabile per mantenere la decenza di un processo che lo slogan “santo subito” pretendeva di saltare. A Roma un merchandising più o meno kitsch sul “beato Wojtyla” invade Via della Conciliazione. Lo stesso succede a Wadowice, nel sud della Polonia dove il papa nacque 91 anni fa e secondo punto più importante delle celebrazioni. Oltre mezzo milione di pellegrini visitano ogni anno conventi e hotel, chiese e ristoranti e il museo dedicato a Giovanni Paolo II che proprio domani inaugurerà altri mille metri di spazi espositivi.
Anche in questo contesto l’immagine di Wojtyla, con un messaggio generico di pace e amore che non fa onore alla complessità e alla statura indiscutibile del personaggio, nasconde la realtà di una chiesa cattolica polacca appiattita ogni giorno di più sul partito di ultradestra, razzista, antisemita, ultranazionalista del defunto Lech Kaczynsky e del suo gemello Jaroslav. L’appiattimento sulla destra reazionaria più volgare, il Pis (Legge e Giustizia) dei gemelli Kaczynsky, come i messaggi antisemiti lanciati ogni giorno da Radio Maria sono la testimonianza della miserabile fine dell’incontro tra il cattolicesimo e il Secolo impostato su ben altri canoni dal Wojtyla di Solidarnosc.
Non è un caso che la situazione polacca sia simile a quella dell’altro paese dove il wojtylismo incise più profondamente: l’Italia. Le gerarchie cattoliche non si sono mai distanziate dal governo di Silvio Berlusconi nonostante i continui scandali sessuali e di corruzione, l’alleanza con la Lega Nord e l’assoluta mancanza di carità verso i migranti. Il primo ministro continua a comprare il loro silenzio concedendo enormi vantaggi economici in termini di finanziamenti alla scuola privata o esenzioni fiscali e impedendo qualunque dibattito su temi etici come la fecondazione assistita, i matrimoni omosessuali, le cure palliative. Ciò anche se vari scienziati, tra i quali l’anestesista Lina Pavanelli, abbiano studiato come lo stesso Wojtyla abbia deliberatamente interrotto le sue cure, accelerando la morte, cosa che la chiesa considera peccato mortale per i comuni fedeli. È il Wojtyla conservatore, sempre irriducibilmente contro qualunque tipo di contraccezione e contro l’uso del preservativo nella lotta all’AIDS. È il Wojtyla che preferiranno non ricordare domenica a Roma.
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