Un italiano, un voto

Puntualmente ho ricevuto una serie di critiche “da sinistra”, riguardo il mio intervento intitolato “Gli italiani che votano Italia”, che concerneva la straordinaria prova che hanno dato circa un milione e duecentomila italiani di ogni angolo del pianeta, votando per eleggere i loro rappresentanti al Parlamento di Roma.

Il punto centrale del mio ragionamento è che non è possibile privare del diritto di voto un cittadino italiano. Se -secondo le nostre leggi- ha diritto alla cittadinanza, ha anche diritto ad un voto, la meccanica del quale è perfettibile. Non si scappa. Inoltre, in un momento storico, di nuova e più marcata elitizzazione della vita politica e della rappresentanza, l’allargamento del diritto di voto, e la difesa di questo, è comunque un segnale di progresso. È inoltre l’unico segnale che può andare nella direzione del ripristinare il suffragio universale in Italia, del quale sono privati -anche oggi- due milioni e mezzo di italiani di provenienza estera, gli immigrati. Provo ad ampliare le mie ragioni e rispondere alle osservazioni che si concentrano su tre o quattro punti.

TASSE E DIRITTI Qualcuno si sofferma sul rapporto tra voto e tassazione. Gli italiani che non pagano le tasse in Italia, non dovrebbero votare. Si cita la Magna Charta inglese che –ricordo- risale al XIII secolo. L’idea di cittadinanza si è evoluta -anche se potrebbe registrare involuzioni in futuro- e da quel dì si è slegata da concetti pre-democratici. E’ dunque assurdo che da sinistra si faccia propria quella che appare una mera provocazione. Prima delle grandi lotte ottocentesche, che portarono alla conquista -conquista e non concessione- del suffragio universale, si votava per censo. Il solo considerare ancora oggi la tassazione come criterio per discriminare chi detiene il diritto di voto, ci riporterebbe indietro di un secolo fino all’Italia liberale. In quell’epoca, il ragionamento capzioso di chi difendeva quelle forme elitarie di rappresentanza, si sostanziava in alcuni punti. Si sottolineava la maggiore preparazione culturale connessa, si sosteneva, al censo. Nella migliore informazione della quale le élite si pretendeva godessero. Nella supposta indipendenza di giudizio politico di chi godeva dell’indipendenza economica. Nella pretesa che solo l’interesse economico garantisse un reale discernimento al momento del voto. La strumentalità e la capziosità di tali argomentazioni, si riaffacciano tutte nei dubbi e nei pregiudizi con i quali da sinistra si continua a criticare il voto degli italiani all’estero. Tra i cittadini italiani –possessori dello stesso passaporto- esisterebbero due classi: una sicuramente informata, che paga le tasse e quindi può votare; un’altra pregiudizialmente disinformata, che non paga le tasse e quindi non deve votare.

Raccogliere tale provocazione vorrebbe dire –per le stesse ragioni- mettere in dubbio il voto dei cittadini italiani troppo giovani per avere un reddito, o di quelli poveri o indigenti. Come si può inoltre scendere a discriminare il grado di preparazione culturale e di informazione sulla vita politica del paese per il mero fatto di non vivere in Italia? Volendo scendere su questo piano inclinato, qualcuno davvero potrebbe mettere in dubbio il diritto di voto degli spettatori del TG4 o, dal campo opposto, dei lettori dell’Unità.

E’ un piano sul quale la sinistra –che significa innanzitutto allargamento dei diritti e della partecipazione- non può permettersi di scendere. Sulla base del pregiudizio per il quale gli italiani all’estero sarebbero di destra o peggio ancora tutti fascisti, la sinistra ha prima osteggiato per decenni l’esercizio di questi del diritto di voto, poi non si è esposta a che ci fosse una legge migliore, infine ha impegnato ben poche energie in questa campagna che potrebbe risultare decisiva. Se qualche punto è stato segnato da Tremaglia, la sinistra se lo è cercato e adesso non può prendersela con gli italiani all’estero. E’ improbabile che succeda ma, se la maggioranza di governo sarà decisa a favore del centrodestra dal voto degli italiani all’estero, sarà già pronto un facile capro espiatorio proprio negli italiani all’estero. Del resto la sinistra, l’ex partito comunista innanzitutto, è recidiva. Nel dopoguerra il PCI era ben scettico sul voto alle donne e si lambiccava se fosse conveniente o no stare dalla parte di un diritto così sostanziale. È un’aberrazione che anche stavolta la sinistra si interroghi sulla mera convenienza di un diritto.

PREGIUDIZI Il pregiudizio che gli italiani all’estero siano di destra, si accompagna a quello che non conoscano le cose italiane. Chi scrive ha tenuto per quattro anni corsi di Storia Contemporanea d’Italia presso l’Università della Repubblica di Montevideo, riservati ai docenti di italiano che giungono da tutto l’Uruguay per seguirli perché fanno parte del loro percorso di aggiornamento. In quel paese, dal quale ci deriva perfino la camicia rossa dei garibaldini, lo studio della lingua e della cultura italiana è addirittura obbligatorio nel quarto anno del Liceo. I docenti ai quali faccio lezione, hanno visto e fatto vedere ai loro studenti film come “Palombella Rossa”, “Aprile”, “La meglio gioventù”, e non solo “Roma città aperta” o “La grande guerra”. E aspettano “Il caimano”, del quale invece uno spettatore qualsiasi del TG2 non è tenuto –per par condicio, sic!- a conoscere l’esistenza. Ho già scritto che il PSOE spagnolo ha a Buenos Aires una struttura paragonabile a quella di una grande provincia iberica. E’ tempo che i DS si attrezzino e facciano altrettanto, invece di ingenerare negli italiani all’estero la sensazione di essere benvoluti dalla destra e mal sopportati dalla sinistra. Del resto, in queste stesse ore, al Consolato peruviano di Firenze ci sono 5.000 peruviani di Toscana che stanno esercitando il loro diritto di voto. A Roma sono addirittura 13.000, varie decine di migliaia in tutta Italia. Il mondo cambia, anche se le sinistre europee sono sempre più lente a reagire.

Il sistema di voto utilizzato, è criticabile e non particolarmente sicuro. Ma il voto per posta non è particolarmente sicuro in nessun paese al mondo. Il nostro personale consolare –quello sì quasi tutto di destra- non incute fiducia. La questione del voto dei temporalmente residenti ha causato gravi problemi ed ingiuste esclusioni. Ma è altrettanto ingiusta la limitatissima estensione del voto a casa in Italia di pochissime categorie di non deambulanti, della quale si è parlato molto meno. Il maxicollegio Asia-Africa-Oceania è un assurdo. I candidati sono a volte di cattiva qualità, anche se sfido a dimostrare che siano peggiori di quelli dei collegi metropolitani. Un amico, su questo sito, denuncia che i DS hanno in lista “squallidi” candidati di destra che si distinguono per fare parte dell’opposizione dura al governo di Hugo Chávez. Non è colpa degli italiani di sinistra se un partito di sinistra presenti candidati di destra. E’ un problema, quello della pessima informazione sulle cose latinoamericane da parte del più grande partito della sinistra, che denuncio da anni. Massimo d’Alema continua ad esprimere disprezzo per il governo di centrosinistra argentino presieduto da Nestor Kirchner, a considerare dittatoriale (sic!) quello venezuelano, mentre è irrecuperabile, fin dai tempi in cui era Presidente del Consiglio, un rapporto più che formale con il PT e il governo Lula in Brasile. Un attuale deputato del PT riferì a chi scrive (Brasilia 2002) che d’Alema rifiutava di ricevere emissari del PT “perché tanto Lula non vincerà mai e il nostro referente in Brasile è Fernando Henrique Cardoso”, ovvero l’ex-Presidente della destra fondomonetarista. Con questi chiari di luna di chi è la colpa se qualche italiano di sinistra in America Latina non si sente rappresentato dal centrosinistra? Il centrosinistra poteva e doveva fare di meglio, può e dovrà fare di meglio.

COS’È UN ITALIANO? Il dibattito che questo voto ha il merito di avere messo in moto dovrà trovare centralità nel corso della prossima legislatura: cos’è un italiano?
Per le attuali leggi, sarebbe italiano quel cittadino dominicano che in linea maschile dimostrasse di essere discendente di Cristoforo Colombo. Non c’è limite ed è la più netta applicazione possibile del diritto di sangue alla cittadinanza, lo Ius sanguinis. In linea femminile invece no. E’ italiano matrilineare solo chi è nato dopo l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, il primo gennaio 1948. Consanguinei di madre italiana possono essere discriminati nell’ottenere la cittadinanza. Il fratello maggiore della stessa madre italiana, nato nel 1947, non ne ha diritto. Invece il minore, nato l’anno dopo, è italiano a tutti gli effetti. E’ palesemente incostituzionale questa distinzione tra linea maschile e linea femminile, ma al momento è così. C’è dunque un fronte, quello dell’eccessiva o sbagliata applicazione dello Ius sanguinis, sul quale agire in via legislativa. Bisognerebbe aprire alla discendenza matrilineare per un periodo transitorio di cinque anni, con il quale si dia la possibilità di sanare tutte le situazioni pregresse, e permettere di acquisire la cittadinanza a chi ne ha diritto secondo le vecchie norme. Poi si dovrebbe limitare per sempre lo Ius sanguinis alla seconda o terza generazione, ai nonni o al più ai bisnonni.

Tale regolamentazione offrirebbe un’occasione storica per modificare l’intera materia e sancire il cambiamento storico tra l’Italia paese di emigrazione e quella odierna di paese di immigrazione. Contemporaneamente al dibattito sullo Ius sanguinis si aprirebbe anche quello sullo Ius solis –il diritto di suolo- e sul diritto alla cittadinanza per gli immigrati. Un bambino che nasce in Italia ha diritto di essere considerato immediatamente italiano. Il centravanti della Roma Stefano Okaka (nella foto), nato sul lago Trasimeno nel 1989 e che parla con un forte accento umbro, non ha potuto rispondere alla convocazione della nazionale italiana perché le odierne “leggi razziali” dicono che non è italiano. In questo senso va immediatamente cambiata la Bossi-Fini che invece espelle un cittadino nato e cresciuto in Italia al compimento del diciottesimo anno. Un immigrato per integrarsi deve poter raggiungere in tempi ragionevolmente brevi la piena cittadinanza. Oggi 47 milioni di italiani stanno votando. Ma in Italia da tempo non si può più parlare di suffragio universale. Infatti due milioni e mezzo di persone che vivono e lavorano stabilmente insieme a noi, sono private del diritto di voto. Solo quando potranno votare sarà stato ripristinato il suffragio universale in questo paese.

La sinistra non può prestarsi ad interpretazioni restrittive. Deve battersi per ampliare e non restringere i diritti degli italiani che andarono a Rosario o a Stoccarda così come di quelli che vengono da Dakar o da Tirana. Altrimenti che sinistra è?