Bolivia: cosa è in gioco col referendum revocatorio di domenica

amoevo Domenica 10 agosto si realizzerà in Bolivia il referendum revocatorio. Le dieci cariche più importanti del paese, presidente, vicepresidente e otto dei nove prefetti (governatori) saranno sottoposte ad un referendum popolare che confermerà o meno il loro incarico.

Si vota in un contesto caotico e con il pericolo reale di un colpo di stato organizzato dai prefetti dell’opposizione.

Questa ha tentato fino all’ultimo di evitare un referendum che può essere la chiave di volta del processo diretto da Evo Morales.

Da lunedì il cambiamento in Bolivia si fermerà definitivamente o accelererà.

Ricordate Salvador Allende? Il golpe in Cile non si doveva realizzare l’11 settembre ma il giorno dopo, il 12 settembre 1973. Ma quando il traditore Augusto Pinochet seppe che il giorno 11 Allende avrebbe annunciato al paese che si sarebbe tenuto un referendum popolare sul suo mandato, e se avesse perso si sarebbe dimesso in pace e in democrazia, decise di anticipare il colpo di stato. Era evidente ad ogni persona informata dei fatti, che il popolo era con Don Salvador e che questo sarebbe uscito infinitamente rafforzato dal referendum, rispetto all’opposizione e rispetto alla sua litigiosa maggioranza.

Il golpe in Cile avvenne quindi innanzitutto per evitare il referendum e, anche adesso in Bolivia, l’opposizione al governo popolare, dopo aver preteso il revocatorio contro un governo secondo loro delegittimato, ha cambiato idea. Da allora Ricardo Bajo ha contato addirittura trenta diverse strategie dell’opposizione per impedire il referendum. Sono arrivati a sostenere che “votare è antidemocratico”. Adesso non resta loro che la violenza perché il revocatorio non si tenga. Il giorno sei il Presidente non ha potuto commemorare nella città di Sucre l’anniversario dell’indipendenza e i presidenti amici di Argentina e Venezuela, Cristina Fernández e Hugo Chávez, sono stati costretti a rinunciare all’ultimo momento ad una visita di stato in appoggio al presidente. Il giorno dopo è stato impedito al presidente della Repubblica di uscire dall’aeroporto di Santa Cruz (la provincia dove l’opposizione è più forte) e neanche nel capoluogo del dipartimento di Beni, Trinidad, gli è stato permesso di parlare. Mentre continui scontri segnano di sangue la vigilia, tali fatti testimoniano da un lato di un’opposizione eversiva contro l’indio presidente, dall’altro della persistente fragilità dello Stato e di conseguenza del governo nel controllo del territorio.

Il fatto è che, come in Cile nel 1973, anche in Bolivia è evidente che le masse sono con Evo Morales e non ci sono sondaggi che temono che Evo possa perdere il revocatorio di domenica.

Ma non è il mandato di pochi governatori o dello stesso presidente la cosa più importante che è in gioco domenica in Bolivia. La cosa più importante è che, comunque vada, il revocatorio toglierà la Bolivia dall’impasse istituzionale nella quale si trova da mesi.

Dopo il revocatorio, se il governo sarà riconfermato, si voterà e con ogni probabilità si approverà la nuova Costituzione. Questa sarà lo strumento fondamentale con il quale uno Stato fondato sull’apartheid e l’esclusione sociale, si trasformerà in uno stato plurale con pari diritti e pari dignità per tutti i boliviani e dove l’egemonia si sposterà gramscianamente a favore del popolo. E’ con tale mandato che Evo Morales è stato eletto: non quello di governare, ma di cambiare il paese. Da lì in avanti tutto sarà possibile, a cominciare dallo smantellamento dell’immenso latifondo e delle sacche di lavoro servile e schiavo ancora presenti nel paese, soprattutto nelle regioni più ricche come Santa Cruz. Tutto sarà possibile con il superamento dei rapporti di produzione neoliberali per un progetto di paese che Evo Morales definisce “socialista”.

Fu proprio per impedire che la nuova Costituzione entrasse in vigore che l’opposizione chiese in origine il revocatorio. Evo (che intervistammo qui) lesse le carte e accettò la sfida. Superando il revocatorio si sbloccherà anche la situazione per il referendum Costituzionale, un ginepraio dal quale il governo stesso non aveva finora saputo uscire. E perciò che l’opposizione ha cambiato idea e da mesi si oppone con tutte le sue forze al revocatorio che aveva essa stessa chiesto. Ma il fatto che il risultato possa essere messo in discussione solo con barricate, brogli, golpe o con l’assassinio del Presidente, un’eventualità purtroppo sempre possibile in Bolivia, non implica che il referendum di domenica sia meno importante.

Il revocatorio, la costituzione e il processo in atto

Chi crede che in Bolivia non sia in atto un vero cambiamento, doveva andare sabato scorso a Huarisaca, nelle vicinanze del lago Titicaca, dove è stato firmato il decreto che istituisce le tre università indigene del paese. A Huarisaca stessa sorgerà l’università in lingua aymara. A Chimboré quella in lingua quechua, a Hipatimuri quella in lingua guaraní. Ha affermato Evo Morales che “per la prima volta nella storia i popoli indigeni, il maggiore desiderio dei quali è la conoscenza, potranno possedere la tecnologia”. Per la prima volta la maggioranza dei boliviani potrà arrivare a titoli universitari studiando nella propria lingua madre. La conoscenza, la tecnologia, il progresso, per la prima volta saranno nelle mani dei popoli nativi boliviani e non solo dei creoli.

E’ solamente uno dei passaggi, simbolici e concreti allo stesso tempo, che la Bolivia fondata sull’esclusione della maggioranza indigena stia passando alla storia. E’ perciò che l’opposizione, che può contare con l’aiuto incondizionato del governo degli Stati Uniti, sta giocando così pesante. Ha puntato finora tutto sulla polarizzazione del paese. Ha cercato di impedire fin dal primo momento al governo di governare. Ha puntato sulla conflittualità permanente, giocando anche sulle contraddizioni del processo, come quella di appoggiarsi su di un sindacato conservatore incapace di appoggiare lealmente il governo amico. Ha puntato sul separatismo secessionista (teorizzato dal Dipartimento di Stato di Washington come uno strumento per bloccare processi democratici sgraditi) e sulla divisione tra la regione andina tutta indigena e quella della cosiddetta mezzaluna. Le province ricche, bianche e separatiste, con le loro milizie neofasciste, si sono approvate degli statuti di autonomia illegali per mettersi al di fuori dello Stato. Tutto è stato fatto nella supposizione razzista che l’indio che aveva avuto l’ardire di diventare presidente, non abituato a governare, si sarebbe via via logorato. Non è successo.

Il cambiamento in Bolivia è già in atto ed è profondo. La nazionalizzazione degli idrocarburi, ha dato per la prima volta solidità e solvibilità allo Stato. Quando entrò in carica il governo le riserve internazionali di valuta erano di appena 1.7 miliardi di dollari. Adesso sono già di 7 miliardi. Le entrate derivate dal petrolio in poco più di due anni si sono moltiplicate per quattro, da 500 milioni a 2 miliardi di dollari l’anno.

Non solo soldi che vanno sprecati. Anzi vengono reinvestiti nelle due cose più importanti: il futuro dei bambini e la dignità degli anziani. Con il programma Juancito Pinto, un milione e 800.000 bambini, ricevono circa due euro al mese. Sembra una cifra ridicola, ma in Bolivia è sufficiente a frenare l’evasione scolastica. Con l’istituzione della Pensione di Dignità, 570.000 anziani ricevono una pensione di circa 25 Euro al mese. Causa orrore una misura del genere nei teorici del neoliberismo. Ma per quel mezzo milione di anziani, ai quali importa ben poco che i neoliberali si scandalizzino, quei 25 Euro rappresentano la differenza che passa tra una vita indegna e una vita degna.

Il ruolo dello Stato è centrale nella nuova Bolivia (e di nuovo, chi storce la bocca, ammetta che le ricette precedenti, a cominciare da quella neoliberale hanno, semplicemente, totalmente fallito provocando fame e miseria). Prima i governi fondo monetaristi aiutavano i latifondisti e le multinazionali dell’agroindustria con 150 milioni di dollari l’anno. Adesso con quei soldi lo Stato appoggia i piccoli e medi produttori locali che stanno rinascendo. Ciò che va lentamente è la riforma agraria. La Bolivia continua ad essere un paese straordinariamente iniquo. Lo 0,6% delle imprese agricole possiede il 66% delle terre mentre l’86% di queste detiene appena il 2.4% e il bracciantato è ancora il destino unico possibile di centinaia di migliaia di famiglie contadine. Di 30 milioni di ettari di terra, appena 800.000 sono stati restituiti a chi realmente la lavora. A ciò si aggiunga che le oligarchie, soprattutto a Santa Cruz, dal 1953 in avanti si sono appropriate illegalmente di almeno 50 milioni di ettari di terra. Si va così piano soprattutto per evitare il confronto violento con l’opposizione. Anche in questo la nuova Costituzione, che stabilisce un limite di 5.000 ettari per le proprietà terriere sbloccherà l’empasse.

Questa è la Bolivia governata dal 22 gennaio 2006 da Evo Morales. Un paese che per la prima volta cerca un proprio modello di sviluppo diverso da quello capitalista. Un paese dove, con l’aiuto dei medici cubani e l’appoggio del Venezuela, sono oggi garantite ai più poveri 15 milioni di prestazioni sanitarie gratuite l’anno, e dove 250.000 persone hanno riacquistato la vista con operazioni a volte semplici e gratuite come quella di cataratta. Persone che durante l’epoca neoliberale erano semplicemente condannate alla cecità perché non in grado di pagare. Un paese dove si sta conducendo una battaglia senza quartiere all’analfabetismo. Un paese che è pienamente parte di un processo emancipatore, quello dell’integrazione latinoamericana, di autonomia economica e culturale, e di sviluppo democratico ed ecosostenibile che ha alla base la riduzione radicale dell’esclusione sociale che è il tratto più tipico del modello di sviluppo latinoamericano post-coloniale e poi neoliberale.

Alla chiusura di questo articolo, nonostante i gravi timori di golpe, è scontato che Evo Morales sarà riconfermato presidente, ed è probabile che i prefetti dell’opposizione di La Paz, Cochabamba e Pando vengano rimossi dal loro incarico. Si passerebbe così dall’accerchiamento del governo, voluto in questi anni dall’opposizione all’accerchiamento delle oligarchie di Santa Cruz con i movimenti sociali boliviani, che non hanno mai abbassato la guardia in questi anni, come punta di diamante della controffensiva. Anche in Bolivia, da lunedì, il potere potrebbe logorare chi non ce l’ha.