La pistola puntata di Donald Trump contro il Messico

Gli Stati Uniti di Trump hanno un’agenda regionale nordamericana in parte fasulla, in parte mediatica e in parte concreta ma sanno di giocare sul velluto finché dall’altra parte c’è lo screditato Enrique Peña Nieto (nella foto l’incontro di agosto 2016 quando Trump fu accolto quasi come già presidente a Città del Messico, mentre si rinvia ancora un nuovo incontro tra i due).

Farebbe parte del fasullo lo spararsi sui piedi dello smantellare accordi di libero commercio totalmente favorevoli agli USA; non vale neanche parlarne, nonostante sia una solenne promessa elettorale. Fa parte del mediatico mettere enfasi sulla costruzione del muro (e del ridicolo pretendere che siano i messicani a pagarlo) e sulle deportazioni più o meno di massa dei lavoratori messicani e centroamericani, scaricandoli indifferentemente in Messico, a sovrapprezzo di disprezzo razzista, indifferente alla sorte di chi, guatemaltechi, salvadoregni, honduregni, oltre che messicani, in particolare dal 1994 a oggi, manda avanti dal basso, con i più umili e precari dei lavori, l’economia statunitense.

La maggior parte di chi oggi rischia di essere espulso fu costretto a emigrare proprio per le conseguenze del NAFTA, che per la prima volta in 5000 anni hanno ridotto il Messico a importare mais, la base della dieta del paese, e della straordinaria ondata di violenza susseguita all’ideologia della “guerra al narco”. È una vera guerra a bassa intensità, condotta dal 2006 in qua, che lungi dal contenere il fenomeno del narcotraffico, ha causato la morte o la sparizione forzata di almeno duecentomila persone e indotto alla fuga oltre frontiera milioni di altre.

In uno stato di diritto non si può deportare (come invece ha minacciato ieri Donald Trump) un lavoratore solo perché viene preso sull’autobus senza biglietto. La deportazione di massa non ci sarà, almeno non a milioni come millanta l’estrema destra che governa gli USA. Ovvero ci sarà, ma soprattutto come operazione mediatica perché non conviene neanche a Trump andare oltre una routine oramai standardizzata tra espulsioni e nuovi arrivi, che contribuisce a contenere il costo del lavoro al Nord. Basta dare qualche “bad hombre” latinoamericano in pasto all’odio dei bianchi che hanno eletto Trump per compiere la missione.

Quella delle deportazioni è dunque un’arma puntata contro l’insipienza del governo messicano di Peña Nieto, che non è strutturalmente capace di “mettersi i pantaloni” di fronte al vicino, al quale deve tutta la sua infima legittimità di governo poco più che fantoccio. Il Messico contemporaneo, quello che resta di un grande paese, è strutturalmente pensato per servire in modo coloniale gli Stati Uniti e il fatto che la prima fonte di divisa siano proprio le rimesse degli emigrati ne testimonia i piedi d’argilla. Se Trump chiude il rubinetto delle rimesse – ma gli conviene? – il Messico è spinto verso il caos. Piedi d’argilla testimoniati dal colpo di genio di nominare in gennaio come ministro degli esteri Luis Videgaray, un economista senza alcuna esperienza diplomatica, ma con il merito di essere intimo di Jared Kushner, marito di Ivanka e genero di Donald Trump. Così si fa nelle colonie.

Dove l’agenda di Donald Trump si fa concreta (e allo stesso tempo illusionista) è allora su sicurezza e narco. Tillerson e Kelly, segretario di Stato e ministro degli Interni statunitensi, sono andati a città del Messico a imporre una volta di più la loro visione: la guerra al narco continuerà a combattersi in territorio messicano, con l’uso dell’esercito e con l’impunità per la sistematica violazione dei diritti umani della popolazione civile messicana: esecuzioni extragiudiziali, stupri, tortura, ma anche taglieggiamento e tangenti pretese dai militari continueranno a essere la regola. Tutto ciò nella negazione e nell’appeasement al narco, che continua a produrre negli USA il 90% degli utili perché lì sono i consumatori e lì, oltrefrontiera, oltrecortina verrebbe ormai da dire, il prezzo si moltiplica anche per dieci. È negli USA che si potrebbe spegnere l’incendio messicano ed è evidente che il narco non generi corruzione, violenza e crimine solo a sud del muro che si sta elevando nel mezzo del nordamerica; tutt’altro. Il narco stesso procura enormi dividendi alle destre populiste; non c’è nulla di meglio di un muro che divida il bene dal male per creare consenso al tenere in piedi un modello razzista di divisione del lavoro. Così l’America di Donald Trump continuerà a ricattare milioni di lavoratori messicani e centroamericani, calunniando, criminalizzando e rendendo impossibile la vita ai più umili e ai più indifesi di loro.