Partito Democratico: il crollo delle iscrizioni è figlio delle primarie

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Senza nostalgie, è opinabile che la caduta del desiderio di tesseramento al PCI[DC]-PDS[PPI]-DS[Margherita]-PD sia tutta colpa di Matteo Renzi, come piace strillare in queste ore a quegli stessi per i quali il ‘problema Italia’ era tutta colpa di Silvio Berlusconi.
Pare piuttosto che una parte della risposta al presunto crollo dei tesseramenti del Partito Democratico vada cercata nella scelta di sostituire la partecipazione alla vita del partito. che passava dal tesseramento, con quell’evento mediatico confermativo/celebrativo (e raramente competitivo) che sono state in questi anni le primarie del centro-sinistra. È una scelta che in origine permise a Romano Prodi di legittimarsi rispetto al ginepraio delle distinte soggettività del centro-sinistra. Poi questa fu rafforzata in particolare da Walter Veltroni, che esplicitava il suo ritenere il partito una zavorra, e nient’affatto modificata da Pierluigi Bersani, che invece fondava tutto il suo periodare politico sul radicamento dello stesso.

Salvo in democrazie dove le primarie sono normate all’interno del processo elettorale stesso, e di conseguenza organizzate dallo Stato, penso all’Uruguay, a nessuno, anche nel 2014, verrebbe in mente di far votare il dirigente politico principale, il segretario politico o quello che deve sfidare la principale controparte conservatrice, da un’area imprecisata di possibili elettori. Ciò tantomeno nell’area politica che affonda le radici nella II Internazionale. Dopo una serie di primarie per lo più vissute come grandi eventi di propaganda e non competizioni tra dirigenti e idee, la candidatura di Renzi contro Bersani nel ’12 fu vissuta come un’OPA ostile dai più. Già nel ’13 erano tutti o quasi pronti a saltare sul carro del vincitore. Non così è stato eletto Ed Milliband in Gran Bretagna. Peer Steinbrück in Germania fu addirittura indicato direttamente da Sigmar Gabriel. In Spagna il partito fondato da Pablo Iglesias ha eletto Pedro Sánchez in un normalissimo congresso, dal quale non è venuto fuori un grigio burocrate ma un aitante e telegenico segretario. Lo stesso accade regolarmente in Francia dove i candidati alla segreteria sono [ancora] primi firmatari di mozioni politiche contrapposte. Per le primarie che designarono François Hollande, anche se in maniera diretta e non per deleghe, votarono gli iscritti. A nessuno sarebbe venuto in mente di far votare, come in Italia, il primo a mettersi in coda al modico prezzo di un paio di Euro. Possiamo evidentemente discutere su legittimità e convenienza della scelta francese rispetto a quella italiana ma in Francia dovevi aver già scelto il partito prima del candidato; avere in qualche modo nel tuo il DNA di Jean Jaurès. Non sfugge che New Labour, SPD e PSOE siano oggi all’opposizione. Ma hanno governato fino a ieri, anche se il partito spagnolo vive una forte crisi di legittimità. Anche la scelta di Hollande, che pure riportò i socialisti all’Eliseo, è fortemente questionata, ma tutti questi partiti continuano a basarsi su di una dialettica interna forte che vede nell’elezione del leader solo il momento conclusivo e non un passaggio propagandistico da ammantare di una democraticità spesso solo immaginata. Solo in Italia è avvenuto questo passaggio, rappresentato come modernità.

La scelta post-politica di far scegliere ai ‘simpatizzanti’ il leader, come succedaneo del dibattere delle idee (probabilmente perché queste già marcate dal ‘pensiero unico’), non è però senza conseguenze ed è all’origine del senso dell’inutilità dell’iscrizione per quasi tutti quelli che sono al di fuori della cerchia della politica politicante. La centralità delle primarie ha prodotto finalmente il partito leggerissimo sognato non già da Renzi ma da Veltroni a partire dal deliberato trasferimento di potere dagli iscritti ad un simulacro di democrazia diretta, le primarie, al quale forse ingenuamente sono state attribuite virtù salvifiche. Questi ormai confondono, come si capisce ascoltando gli elettori al bar o su Facebook, Ballarò con una riunione di direzione e Porta a porta con un organismo deliberante. Ma non è colpa degli elettori se la politica ha alzato i ponti levatoi e si è asserragliata in un fortino, instaurando quel rapporto verticale dato dal medium del quale si parla da Lippmann a Pasolini, per poi chiamare gli elettori ad applaudire a scelte già prese. Quale sarebbe la via d’accesso per le masse per dire la propria al di là dello sfogatoio di un tweet?

Non è semplicemente il segno dei tempi, o l’ennesima conferma del potere della tivù. Ancor più importante della svolta in atto con le iscrizioni è la continua belligeranza tra segreteria ‘del partito’ e sindacato di riferimento, sul quale, come avviene da sempre altrove e come era accaduto in epoca ulivista, dovrebbe invece basarsi una parte fondamentale del consenso. È un elemento di propaganda che Renzi eredita senz’altro dal berlusconismo: i sindacati sono il vecchio e non sono più rappresentativi. In parte è pure vero, ma è come segare l’albero sul quale si è seduti in una belligeranza figlia di un contesto più ampio e con marcati caratteri italianisti, ma che non dà per questi appunti. La conclusione, senza pretese di esaustività, è: «per cosa mi tessero se tanto vota anche chi non si tessera?». Tutto ciò produce uno scollamento che è tanto più forte nell’unico partito tradizionale italiano, il Partito Democratico, genera sconcerto, e una caduta di rituali che hanno costruito la democrazia nella società di massa, che è tutta un’invenzione dei figli del movimento operaio per difendere i deboli dai forti. Nella rottura della cinghia di trasmissione tra sindacato e partito da una parte e dirigenti dall’altra vi è il tramonto della partecipazione nel senso dell’impegno diretto dentro un partito. Ciò in favore di una deriva plebiscitaria debole -nella quale i leader si consumano rapidamente in favore del mantenimento del modello economico vigente- a lungo preparata proprio per spezzare quella delega dal basso che ha costruito i regimi democratici. Piace dare di tutto questo la colpa a Renzi, ma è figlio di un processo a monte del quale Renzi è semmai la deliberata -e fragile- conseguenza.