REPORTAGE – Ciudad Juárez: viaggio al termine del neoliberismo (seconda parte)

Juarez3 Il sogno dell’industrializzazione neoliberale si è trasformato in un incubo. Ciudad Juárez, frontiera tra il nord e il sud del mondo, la città delle “maquiladoras” e dei femminicidi è oggi la città più violenta del pianeta. Negli ultimi due anni la guerra tra narcos, nella quale è coinvolto come parte in causa l’esercito messicano, ha già causato 4.700 morti e 100.000 rifugiati.

Seconda parte, la prima parte può essere letta qui.

Reportage di Gennaro Carotenuto e Chiara Calzolaio da Ciudad Juárez

MODERNITÀ Juárez è enorme. Lo spazio urbanizzato verso il deserto non ha limiti. Le grandi strade sono percorse da decine di pattuglie dell’esercito e della polizia federale. In mimetica vanno i militari, in nero la polizia federale, entrambi in passamontagna e armati fino ai denti. I posti di blocco asfissianti rallentano il traffico in una città dove il desiderio di normalità si scontra con la realtà. Non erano passate due ore dal mio arrivo in città quando sono stato fatto scendere dall’auto per una perquisizione corporale circondato di militari armati.

La maggior parte delle automobili private non ha targa e chi è a bordo è nascosto da vetri polarizzati. Dopo la perquisizione percorriamo la città su vecchi autobus statunitensi acquistati per terminare le loro vite qui. Le facce dei passeggeri sintetizzano quelle di tutti i popoli indigeni messicani venuti a cercare fortuna qui. A volte vi si possono scorgere anche quelle di etnie del Nord America, gli indiani dei western, così simili ai gruppi indigeni del nord del Messico e oltre frontiera costretti nelle riserve.

Ogni viaggio si fa lungo su questi autobus che ansimano nella polvere tra quartieri abitativi chiusi da muri altissimi, frazionati in distese di villette a schiera tutte uguali (la fattura invece cambia di zona in zona promuovendo un popolamento iperclassista), grandi centri commerciali ed enormi spazi vuoti, terre desolate eliotiane che si trovano anche in zone centrali e semicentrali. Per andare a lavorare i juarensi che non hanno auto devono perdere ore a bordo di questi autobus. Alcuni di loro, i più anziani, hanno combattuto negli anni ’70 e ’80 importanti lotte comunitarie perché nei loro quartieri periferici arrivassero i servizi essenziali. Luce, acqua e poco altro: questo è rimasto del “sogno juarense”.

L’urbanista colombiano Edwin Aguirre, che incontriamo nel COLEF (Colegio de la Frontera Norte), prestigioso centro di studi sui problemi della frontiera, ci offre un’interessante chiave di lettura: “dagli anni ’70 ad oggi la città ha moltiplicato per cinque la popolazione. In questi quarant’anni non è stata aperta neanche una preparatoria, restano quelle che già c’erano negli anni ‘60”. La prepa nel sistema scolastico messicano equivale al Liceo e dà accesso all’università. Nessuno ha mai previsto che i figli degli immigrati di prima o seconda generazione potessero ascendere socialmente arrivando all’università. “Gli immigrati, gli operai, le operaie non sono mai stati percepiti come cittadini –commenta ancora Óscar Maynez- e la città intera si è sviluppata secondo gli interessi di poche grandi famiglie”. La gente non vive dove sarebbe più utile e comodo vivere ma dove è convenuto collocarli ai padroni della città, i Zaragoza, i Fuentes, i Vallina. Nel Messico del secolo XXI lo storico riconosce facilmente la categoria di “Repubblica oligarchica” che caratterizzò l’America latina del XIX secolo.

Per Ignacio Alvarado: “non c’è differenza tra PRI e PAN [l’ex partito di regime e il partito di destra attualmente al governo]. Tutti i sindaci, i governatori, i capi della polizia sono stati sempre designati dalla confindustria della città”. Quando negli anni ’70 il narcotraffico come lo conosciamo oggi si sostituì al contrabbando frontaliero tradizionale: “era un affare per giovani di classe medio-alta subordinati alla DNS [la polizia politica del PRI]”. Così si genera il narco juarense, strutturalmente espressione della classe dirigente della città: per quest’ultima è una forma di accumulazione primaria come il riciclaggio e il contrabbando. Si esportava droga e si importavano armi e ognuno prendeva la sua fetta.

Nel centro storico, sulla riva del Rio Bravo e del muro voluto da George Bush e che nessun Barack Obama smantellerà la maggioranza dei locali è chiuso. Ancora nel 2006 la città vecchia di Juárez era il centro della vita notturna transfrontaliera. Migliaia di statunitensi passavano la frontiera per divertirsi, ubriacarsi, perdere soldi nei casinò e comprare sesso a basso costo nei bordelli. Quando passiamo il ponte internazionale per El Paso (che si definisce orgogliosamente la seconda città più sicura degli Stati Uniti) impieghiamo due ore e mezzo in code e umilianti pratiche doganali. Al ritorno in Messico neanche ci controllano il passaporto.

A El Paso ci incontriamo con Gustavo de la Rosa, difensore dei diritti umani, minacciato di morte a Juárez e rifugiato da mesi dall’altra parte del fiume. Gustavo è oggetto di una campagna di solidarietà di Amnistia Internazionale e continua a lavorare a tempo pieno per la sua città e per i suoi studenti dell’Università di Ciudad Juárez ai quali oggi può continuare a far lezione via Internet attraverso strumenti come Skype: “i consumi idrici non mentono. In due anni se ne sono andate almeno 100.000 persone. Le classi medio-alte si sono trasferite a El Paso. Quelle operaie ritornano nel resto del Messico, a Oaxaca, Durango, Veracruz”. Il 25% delle case di Juárez oramai sono vuote. L’intero sistema economico legale è in rovina e il considerare il narco la causa e non la conseguenza di tale rovina è probabilmente un’illusione ottica data dalla contingenza della conta dei morti ammazzati.

Elizabeth Ávalos denuncia: “è comparsa la fame nei quartieri più poveri, qualcosa di sconosciuto qui. La violenza sta distruggendo posti di lavoro in tutti i settori, compreso quello informale, che in altri periodi di crisi rappresentarono un rifugio per molti”. Nell’industria la violenza, l’insicurezza sono l’occasione per un peggioramento ulteriore dei rapporti di produzione: “le maquiladoras che restano pagano salari che oramai arrivano ai 500 pesos settimanali [30 Euro]. I contratti oramai possono durare appena 15 giorni”.

Nonostante tale deregolamentazione totale dei rapporti di lavoro, in due anni le maquiladoras hanno perso 80.000 posti di lavoro rispetto ai 280.000 di appena due anni fa. Non sembra più una crisi ciclica come quelle dell’82 o del 2000, ma strutturale. Alla disarticolazione neoliberale del mercato del lavoro e alla crisi internazionale che il Messico soffre in modo particolare con la sua economia completamente dipendente dalla statunitense (il PIL è crollato del 6.5% nel 2009), Juárez aggiunge la difficoltà a districarsi tra legalità e illegalità, politica e mafia, classe dirigente e cupole criminali, impresa e narco.

Fine seconda parte.

La terza e ultima parte sarà pubblicata sabato 27 marzo su Giornalismo partecipativo. La prima parte è qui.

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