(REPORTAGE) Ciudad Juárez: viaggio al termine del neoliberismo

Il sogno dell’industrializzazione neoliberale si è trasformato in un incubo. Ciudad Juárez, frontiera tra il nord e il sud del mondo, la città delle “maquiladoras” e dei femminicidi è oggi la città più violenta del pianeta. Negli ultimi due anni la guerra tra narcos, nella quale è coinvolto come parte in causa l’esercito messicano, ha già causato 4.700 morti e 100.000 rifugiati.

Reportage di Gennaro Carotenuto e Chiara Calzolaio da Ciudad Juárez

Arrivando a Ciudad Juárez dal Sud, dalla mesoamérica cuore della nazione messicana, l’ultima ora di aereo mostra con crescente angoscia uno dei deserti più aridi del mondo. Non era così prima, raccontano i pochi juarensi che non sono immigrati. Juárez aveva appena 30.000 abitanti nel 1930, 300.000 nel 1970 e 1.5 milioni nel 2000 e ha perso varie battaglie per il controllo dell’acqua del Río Bravo con El Paso, l’ex quartiere dall’altro lato del fiume e che dal 1848 appartiene agli Stati Uniti.

Della vecchia e fertile valle di Juárez restano così appena i toponimi. Tra questi il Campo algodonero (campo cotoniero), dove nel 2001 furono trovati i resti di otto donne vittime di femminicidi. Nel novembre scorso la Corte Interamericana di Diritti Umani ha condannato il Messico per “indifferenza”: le donne stuprate e assassinate, giovani di classe umile, non valevano niente.

Dagli anni sessanta, e con più forza dalla firma del Trattato di Libero Commercio con gli Stati Uniti nel 1994, sono immigrate a Juárez decine di migliaia di donne per lavorare nelle “maquiladoras”, le fabbriche di proprietà straniera che beneficiando di regimi fiscali speciali, offrivano bassi stipendi e scarsi diritti ma anche la speranza di un futuro migliore rispetto alla povertà del Messico rurale.

Le ragazze vittime dei femminicidi non valevano niente, come non valgono nulla i 4.700 morti ammazzati a Juárez dall’inizio del 2008, quando è cominciata una guerra per il controllo della piazza della droga più importante del paese ed è stato inviato l’esercito a giocare una sua propria partita. I conti li ha fatti per noi Ignacio Alvarado, giornalista di “El Universal”: “il 65% dei morti sono minori di 25 anni e sono figli o nipoti delle operaie delle maquiladoras”. È un dato che oltre a far emergere un’etnografia del massacro (ragazzi immigrati di seconda o terza generazione, figli di donne costrette a lavorare 14 ore al giorno, spesso senza padri) testimonia il fallimento di un modello di sviluppo.

Elizabeth Ávalos, sindacalista, ex-operaia, conferma: “oggi vivono a Juárez mezzo milione di giovani ai quali il modello neoliberale non ha mai offerto nulla, né istruzione, né salute, né lavoro e vedono nel narco l’unica possibilità di guadagno e riconoscimento sociale”. Coinvolti dai cartelli della droga, sono oggi perseguitati dall’esercito che li sequestra, li tortura e li assassina a centinaia al mese, senza che la grande stampa internazionale si indigni mai della condizione dei diritti umani in Messico. Oppure regolano i loro conti direttamente, trasformandosi precocemente in sicari o vittime di questi. Ciò in un contesto senza legge dove il collasso del sistema giudiziario della città è forse l’elemento più visibile del fallimento dello stato. È un collasso che va ben oltre l’impunità e la corruzione dilagante. Ne è prova il fatto che per tutti i morti di Juárez non ci sono più di 150 inchieste giudiziarie aperte.

E gli altri 4.550 cadaveri? Lo domandiamo al giurista Óscar Maynez: “Se l’omicidio è stato commesso con armi automatiche o semiautomatiche si dà per scontato che si tratta di un aggiustamento di conti tra narcos e non si procede”. Per quanto dura tale realtà possa già sembrare, un altro testimone, che ci chiede l’anonimato (tutti i nostri testimoni, anche quelli particolarmente qualificati e autorevoli, ce lo chiedono almeno per alcune parti del loro racconto), ci colloca in un contesto ancora più grave: “Nel 2008 l’80% dei morti sono stati assassinati dalle truppe d’occupazione [l’esercito]. La percentuale è scesa un po’ nel 2009 perché c’è stata la controffensiva dei narcos locali, spiazzati ma non sconfitti”.

Gli organismi di difesa dei diritti umani hanno finora dimostrato le responsabilità dei militari nella sparizione di almeno cinque persone e ci sono centinaia di denunce per crimini, anche comuni, commessi dall’esercito. “A Juárez –continua il nostro testimone- non c’è una guerra tra narcos nella quale lo stato arriva a restaurare l’ordine ma un massacro commesso dall’esercito mandato a sostituire un cartello con un altro più controllabile”. È così che il sistema giudiziario messicano svanisce completamente. Molti sono i motivi del collasso ma la sostanza è che, come in guerra, lo Stato stesso rinuncia a castigare perché pienamente coinvolto nella violenza.

Óscar Maynez commenta che in questo modo uccidere è diventata la miglior maniera per risolvere questioni pratiche: “se devi 20.000 pesos (1.200 Euro) a qualcuno è più economico pagare 3.000 pesos a un sicario. Liberarsi di una moglie o un’amante molesta oggi è molto facile. Giorni fa hanno assassinato nel suo letto un autista d’autobus rimasto tetraplegico dopo un incidente stradale. Tutto indica che è stato ucciso dal suo datore di lavoro per non pagare l’indennizzazione. Ma non c’è nessuna inchiesta in corso per questo omicidio”.

Neanche per la morte di Alfredo Portillo, genero di Marisela Ortiz, dirigente dell’associazione “Nuestras hijas de regreso a casa” è mai stata aperta un’inchiesta. Marisela, che ci riceve nella scuola dove insegna, è considerata la “madre di Plaza de Mayo” di Ciudad Juárez per la sua lotta contro i femminicidi. Alfredo, come il docente universitario Manuel Arroyo, il dirigente contadino Armando Villareal, il giornalista Armando Rodríguez o Josefina Reyes e altri sette difensori dei diritti umani, insieme ad anonimi militanti di movimenti sociali o organizzazioni di quartiere, sindacalisti, studenti, giovani ribelli, fanno parte della lista delle decine di “omicidi politici” che nessuno riconoscerà mai come tali e per i quali l’esercito messicano vanta una lunga tradizione de Tlatelolco in avanti.

Sono “omicidi politici”, che servono a garantire impunità, affari e ingiustizia sociale. Vengono classificati con la bugia pietosa della “pallottola vagante” o liquidando i fatti come “questioni private” o con l’insulto calunnioso del “era coinvolto in qualcosa”, ovvero nel narcotraffico. “Omicidi politici” che sono un dettaglio nel puzzle juarense ma testimoniano l’esistenza di una guerra nella guerra: quella contro la società civile e chiunque sogni un’altra Juárez possibile.

Fine prima parte.

La seconda parte sarà pubblicata giovedì 25 marzo su Giornalismo partecipativo.

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