#Grexit: Tsipras a mani nude contro chi vuole uccidere il progetto europeo

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Che dopo mesi di un percorso drammatico quanto sincopato si giunga o meno a un accordo che eviti la cosiddetta #Grexit, che Alexis Tsipras sia considerato l’eroe Enea che dopo la caduta di Troia prende in spalla il padre Anchise e tiene per mano il figlio Ascanio, salvando la Grecia e l’Europa o, al contrario, sia il traditore che “si è calato le brache”, il discorso va innanzitutto denazionalizzato e storicizzato. Il capo del governo greco non rappresenta tanto Atene (potrebbe essere Lisbona, Roma, Lampedusa o “degli sfruttati l’immensa schiera”) quanto piuttosto l’incerta prospettiva – la prima a farsi governo in questo continente dopo decenni – di una nuova politica e di una nuova sinistra in grado di farsi maggioranza. È una nuova politica costretta a partire da una crisi esiziale, in condizioni storiche di estrema debolezza economica, politica e culturale, rispetto al modello di società e ai rapporti di forza e produzione invalsi dalla fine degli anni Settanta a oggi. È più Davide che Achille, Alexis Tsipras. Allo stesso modo, il politico identificato come capo dei falchi, Wolfgang “Golia” Schäuble, non è tedesco. O almeno non agisce in quanto tedesco, e sbaglia chi utilizza gli stereotipi nazionali, rigidi teutonici versus greci inaffidabili, per narrare la crisi del debito greco. L’utilizzare svastiche e simbologie naziste è non solo offensivo ma inadeguato a far capire quanto accade a Bruxelles.
Il Ministro delle Finanze di Merkel incarna piuttosto il politico contemporaneo, quello che deve la sua legittimazione all’adesione dogmatica al modello economico vigente, quello neoliberale, dove interessi finanziari sovranazionali dettano l’agenda agli stati rappresentando tornaconti privati come valori generali: il rigore economico, la serietà, l’austerità. È un sistema valoriale estremamente facile da sposare e difficile da contrastare, e con il quale molti paesi del Sud del mondo sono stati spoliati dalla metà degli anni Cinquanta in avanti. Schäuble è della CDU, ma potrebbe essere un popolare spagnolo, un greco di Nea Democratia immemore dei conti truccati, o del New Labour o del PD, con i conversi dell’Internazionale socialista appiattitisi con entusiasmo in un continente trasformato dal declino del lavoro salariato. Se Schäuble è protagonista è perché la menzogna di una comunità di pari, dove Cipro varrebbe la Germania e l’Estonia la Francia (neanche l’Idaho vale la California) viene tanto più al pettine nella situazione attuale, nella quale lo scacco della costruzione europea impedisce ogni visione d’insieme. Non è un caso che un granducato da operetta quale il Lussemburgo, un paradiso fiscale, possa incarnare nella persona di Jean-Claude Juncker il massimo rappresentante di parvenze di politiche comuni.
La subalternità della politica all’economia non spiega però il crinale della relazione tra nazione e sistema mondo, per la quale anche la crisi del debito greco fa da cartina tornasole. Da una parte vi è un sistema di relazioni internazionali completamente e irreversibilmente integrato, simbolizzato, se volete, dall’Euro; dall’altra vi è l’utilitarismo delle classi politiche che in questi anni hanno preferito resuscitare, fomentare e usare come schermo “vetero-nazionalismi” e populismi para-fascisti (da Salvini a Le Pen, da Orbán a Farage).
L’Europa acefala, ridotta da anni alla logica intergovernativa, tanto più la globalizzazione finanziaria avanza (come testimonia il pericolosissimo TTIP contro il quale in pochi si mobilitano), tanto più vede i governi muoversi su una logica a breve termine che produca vantaggi e consenso immediatamente spendibile sul mercato elettorale. Più della crisi greca lo dimostra l’illogica e disumana Dublino, per quanto concerne le politiche migratorie e il problema dei rifugiati. L’Europa intergovernativa, orientata da egoismi e interessi delle “vetero-nazioni” non esiste da tempo come lo squadrismo anti-greco ha dimostrato. L’Europa necessaria può rilanciarsi ormai solo dal basso, con una prospettiva federativa continentale, per la quale però le attuali classi dirigenti appaiono inadeguate, e le opinioni pubbliche diseducate. Ma nell’Europa incapace di avanzare verso uno Stato federale non è in nuce solo il fallimento dell’Euro o l’umiliazione della Grecia oggi e della Spagna o dell’Italia domani. È in gioco il tracollo dell’Europa come soggetto attivo nel mondo multipolare, nel quale neanche la partnership euro-atlantica (a Obama è chiarissimo) basta più a garantire centralità all’Occidente.
Così in questi giorni assistiamo al paradosso della torsione di un modello economico volto a garantire la globalizzazione finanziaria e a scardinare le peculiarità dello Stato nazione e dei regimi democratici, che viene strumentalizzato per garantire élite locali che ripropongono in farsa Margaret Thatcher che batte i pugni contro la politica agricola comune. Come hanno scritto in molti, dai Nobel Krugman e Stiglitz a giornali dell’establishment statunitense come il Washington Post, nell’alzare continuamente la posta nei confronti del governo greco vi è una volontà irragionevole di umiliazione dell’anomalia che non è della Grecia come paese, delle sue fragilità, insipienze e corruttele, ma della rottura culturale rappresentata dall’attuale governo ellenico rispetto al cosiddetto “pensiero unico” per il quale infiniti lutti possono essere addotti agli achei in nome del moloch del rigore economico. Quello presieduto da Alexis Tsipras è il primo governo in Europa a presentarsi libero dai peccati originali del Novecento e che sa che la propria legittimazione non passa (come avvenne con i post-comunisti italiani o con Bad Godesberg per la SPD) dal pieno riconoscimento del modello, ma dal riprendere un cammino di rappresentanza dei propri elettori, ai quali oggi è impedita non solo una vita dignitosa ma anche il minimo che un’economia capitalista dovrebbe garantire: la libertà di usare i propri soldi. Quello di Tsipras è il primo governo nella storia della UE votato in massima parte da ex-elettori del Pasok, partito dell’Internazionale socialista, che si sono spostati più a sinistra seguendo un percorso inverso a quanto accaduto in Italia. Ove l’esperienza greca risultasse contagiosa, la finta alternanza tra popolari e socialisti che caratterizza le istituzioni europee sarebbe in pericolo, costringendo a una dialettica politica reale che l’Europa post-Ottantanove ha dimenticato.
Per la Troika liberarsi di Tsipras, oggi, vuol dire marginalizzare la possibilità di un contagio. Un contagio che non è quello dei mercati ma il timore di dover trattare già da novembre con un Pablo Iglesias di Podemos come inquilino della Moncloa. Non è un caso che in nessun luogo in Europa la comunione consociativa tra i due partiti tradizionali, PP e PSOE, tra i quali davvero non appare esserci più che una pallida differenza d’immagine, sia andata avanti come in Spagna.
Purtroppo a sinistra (come nell’estrema destra), nella critica al fiscal compact e affini, in molti sembrano rifugiarsi in un piano dell’irrealtà con tinte revansciste, nel quale semplicemente i conti non si pagano. Non è così che si difendono scuole e ospedali, posti di lavoro e pensioni. La figura di Alexis Tsipras continua ad apparire a chi scrive come di svolta rispetto alle difficoltà affrontate; ha dimostrato che la necessità di far quadrare i conti (per quanto pesante sia), senza la quale è impensabile sedersi a qualunque tavolo di trattative, non sia una cosa di destra a patto di non abdicare da un progetto politico che fa del benessere collettivo (incompatibile con quello della speculazione finanziaria) il proprio cuore. È ben diverso il sovranismo delle estreme destre dalla defatigante trattativa nella quale continua a essere coinvolto Tsipras.
Nella situazione nella quale si trova la Grecia, con la povertà dilagante, affogata dalla mancanza di liquidità, è difficile dire quale sia il punto di non ritorno nella trattativa con la controparte per evitare la cosiddetta #Grexit. Nell’analisi, gli scettici e i delusi devono però ricordare alcune cose: che al giovane primo ministro di un governo di coalizione di un piccolo paese del Mediterraneo non può essere rimproverato di non poter fare la Rivoluzione alla quale molti vorrebbero assistere dal divano di casa. Tsipras non ha fatto la Rivoluzione per via elettorale e neanche col referendum ha mai chiesto un mandato per uscire dall’Euro. Succede, l’ho denunciato spesso, anche per Cuba e altri processi latinoamericani, dove i più passano dall’applauso frenetico alla delusione, prescindendo da qualunque principio di realtà sul campo e soprattutto dalle necessità materiali e umane. Dimenticano o fingono di dimenticare che la sinistra in Grecia, in Europa, nel mondo, non sta vincendo, continua a essere sulla difensiva e non ci sarà un colpo di scena a cambiarne repentinamente le sorti ma solo un lento processo di accumulazione di forze che, in un mondo pericoloso e con le sirene dell’estrema destra che conquistano facilmente un lumpen-proletariato depoliticizzato, impone di diffidare del “tanto peggio”. Le ragioni della sinistra, dell’integrazione e dell’uguaglianza, continuano a essere neglette e sotto attacco. Il merito di Alexis Tsipras, a iniziare da quando doveva combattere contro la disinformazione del mainstream che in malafede lo definiva anti-europeista come un Salvini qualsiasi, è quello di far calare la radicalità della critica al modello all’interno di tale principio di realtà, per il quale un dirigente politico non può considerare il salto nel buio come un cammino percorribile. Tsipras non ha sbaragliato il campo in 17 ore di trattativa stretto tra Merkel, Hollande e Juncker, ma non ha perso. Il suo governo è rimasto in vita e alcuni dei principi salvati, in un contesto nel quale la tentazione neo-golpista della controparte, quella di un regime change, che elimini l’anomalia greca, è indubbiamente presente e gli spazi di manovra del governo sono strettissimi e gli elettori di Syriza, per quanto poco eroico possa apparire, hanno come primo problema il pagare la luce e l’acqua.
In questo senso è ancora Alexis Tsipras l’unico che può salvare e rilanciare l’Europa, ma non perché abbia la bacchetta magica o debba o possa dichiarare guerra al mondo o possa far sventolare la bandiera rossa sul Partenone.