Povero Oswaldo Payá, l’oppositore politico cubano morto ieri a Cuba in un incidente stradale. Aveva cominciato a morire proprio quando sembrava all’apice del successo, unico dissidente riformista e credibile in una pattuglia di estremisti, sanguisughe, terroristi veri o in sedicesimo, invenzioni mediatiche, profittatori, pronti a vendere la madre e a fare la bella vita con i soldi di Miami ma così fotogenici per la stampa internazionale. Più volte si era dissociato nel corso degli anni da quella parte della dissidenza, Payá. Lui era diverso. Era un lavoratore, un critico aspro della Rivoluzione ma anche un riformista senza salti nel vuoto.
Cattolico, aveva trovato nelle parrocchie dell’isola il luogo per propagandare riforme difficili che avevano poi preso forma in quello che fu il progetto Varela, una riforma costituzionale infine rifiutata dal governo ma per la quale aveva percorso tutto il paese. Il viaggio di Karol Wojtyla nel 1997, fu la sua investitura a leader democratico cubano ma anche l’inizio del suo declino personale, nella risoluzione di tutti i conflitti tra la Chiesa e la laicità di Stato e nel riconsolidamento della Rivoluzione che, nonostante tutte le difficoltà, superava il periodo speciale senza la violenza voluta da Miami e si reinseriva nel consesso dell’America latina integrazionista.
In quel contesto iniziò il declino di Payá. Negli ultimi anni, con l’azione pacificatrice del Cardinale Jaime Ortega, che ha definitivamente delegittimato nell’isola l’opposizione pagata da Miami, la chiesa cattolica della quale era figlio e strumento, lo aveva lasciato solo, quasi un danno collaterale, fino a chiudergli la rivista Vitral, con la quale aveva a lungo tenuto insieme i suoi che, secondo gli stessi militanti del Movimento Cristiano di Liberazione, contava su non più di 20.000 persone nell’isola.
Forse per questo aveva tentato di slittare a destra. Nel 2002 aveva appoggiato pubblicamente il golpe contro Hugo Chávez in Venezuela. Ma anche nel gruppone degli estremisti di Miami, lui, un ingegnere che ha lavorato fino all’ultimo giorno, rispetto a quel circo di parassiti, si era sentito isolato. Si era così ritrovato a metà strada: troppo moderato per Miami, dalla quale non prendeva ordini, ma incapace di capire il momento, per esempio continuando a difendere l’embargo statunitense.
Le ultime uscite pubbliche, ancora pochi mesi fa al viaggio di Joseph Ratzinger, avevano manifestato tutta la sua amarezza per una chiesa cattolica appiattita sul regime in un dialogo con Raúl Castro che tagliava fuori l’opposizione, in primo luogo quella riformista, in primo luogo lui. Adesso Payá se ne va, ad appena 60 anni. Continuano a contarsi sulle dita di una mano gli oppositori credibili alla rivoluzione, i Manuel Cuesta Morua, gli Elizardo Sánchez, poco altro. Con gli altri, quelli benedetti da Miami e dagli omerociai della disinformazione, la Rivoluzione dorme sonni tranquilli.