Amarcord latinoamericano: i neoliberali vintage si ritrovano in Costa Rica

“L’America Latina si sta lasciando alle spalle il XXI secolo e sta camminando all’indietro”. Ad affermarlo, molto contrito, citando niente di meno che Paul Valery, è Julio María Sanguinetti. “Certo -si unisce nella preoccupazione Fernando Enrique Cardoso- l’intero continente oggi è vittima di pericolose utopie regressive”.

Ad applaudirli, tra gli altri, (nella foto in ordine dopo Cardoso), Álvaro Uribe, Óscar Arias, Julio María Sanguinetti stesso e Ricardo Lagos oltre ad altri dinosauri della politica come l’ex-capo del governo socialista spagnolo, Felipe González.

Uribe e Arias, sono gli unici due in servizio permanente effettivo. Uribe, presidente colombiano, è il più destro degli alleati statunitensi duri e puri. Arias, l’anfitrione, è un cavallo di ritorno tornato presidente del Costa Rica nel 2006 a 20 anni esatti dalla sua prima elezione. Sanguinetti è un pensionato del conservatorismo più bruto, presidente uruguayano che cedette e ricevette di ritorno il potere in totale armonia dalla dittatura militare.
Fernando Henrique Cardoso è un ex-grande sociologo progressista, che per diventare presidente fondomonetarista e privatizzare a saldo mezzo Brasile, abiurò pubblicamente tutta la sua attività intellettuale precedente. Don Ricardo Lagos è il socialista cileno che ha governato senza alcuna discontinuità con la politica economica dei Chicago boys pinochetisti. Felipe González, socialista anche lui, è l’uomo di una grande stagione politica, quella dell’uscita della Spagna dal franchismo, invecchiato così male da essere ridotto ad essere mandato in America Latina a fare il lobbysta per il governo di destra di José María Aznar.

Si sono riuniti in Costa Rica nei giorni di Davos, forse perché rispetto ai -10 della città svizzera, il clima della capitale tica era migliore per le loro artriti o forse perché in Svizzera alcuni di loro non erano neanche stati più invitati. E’ il “circolo di Montevideo”, come hanno deciso di chiamarsi. Vorrebbero essere un parlamentino di vecchi saggi della morigeratezza economica e dell’incondizionata adesione del continente al Consenso di Washington. Tra i dinosauri dell’America Latina che svende tutto, scatta sull’attenti ad ogni pretesa dell’FMI e si riduce alla fame degli anni ’90, mancavano all’appello solo Carlos Menem e Alberto Fujimori, entrambi con troppi guai giudiziari per andare a spasso liberamente.

Mentre a Davos si sforzavano di darsi una patina di equilibrio e parlavano perfino di redistribuzione, in Costa Rica andava in onda la nostalgia per i bei tempi così vicini eppure così andati: senza di noi l’America Latina sta perdendo il treno della globalizzazione dicono. E non importa se gli fai notare che l’interscambio interno è cresciuto del 250% in appena tre anni e quello con il resto del sud del mondo del 200%; oramai ci sentono poco.

E’ un incontro tra vecchi amici, e sono d’accordo su tutto. “O competiamo o restiamo indietro”, afferma ancora Sanguinetti. “Il commercio internazionale è fondamentale”, gli fa eco Belisario Betancourt, ex-presidente colombiano.
Ma è quando prende la parola Óscar Arias che la sua relazione di trasforma in un tripudio di consensi: “l’educazione dev’essere la colonna vertebrale dello sviluppo”. Tutti fanno di sì con la testa, tutti molto convinti, ma tutti, quando erano al governo, hanno ridotto drasticamente il PIL destinato all’educazione stessa. Prima di tutto, era il motto, andavano onorati gli impegni internazionali, ovvero pagare gli interessi degli interessi degli interessi sul debito estero.

Álvaro Uribe, uno che più di destra non si può, e che sta combattendo una guerra civile nel suo paese, ha fatto un intervento molto alto sull’importanza di evitare contrapposizioni ideologiche tra destra e sinistra. Come un vecchio democristiano sembrava dire: “avanti al centro contro gli opposti estremismi”, e sicuramente non parlava della sua Colombia. “Sinistra e destra -ha affermato Uribe mentre Cardoso si spellava le mani- sono categorie obsolete e pericolose. Soprattutto sono quelle che impediscono l’ingresso nella ‘globalizzazione'”. E’ un discorso così vintage che in qualcuno ha provocato l’illusione di vedere Francis Fukuyama portato in processione come una madonna in una festa paesana. Ma non è Fukuyama portato in processione il pericolo che atterrisce i nonni del Circolo di Montevideo. Il pericolo, lo hanno detto tutti ma proprio tutti, sono i leader messianici, quei personalisti che si appoggiano sul consenso popolare, non come noi, che rendevamo conto solo al Fondo Monetario Internazionale.

Hanno fatto bene a farsi vedere tutti insieme Don Fernando Henrique, nonno Ricardo, Don Julio María, e lo zio ‘gallego’, Don Felipe. Ci ricordano come eravamo, quando questi discorsi venivano pronunciati alle Nazioni Unite e non in un grand hotel termale. Ci ricordano che tutti insieme hanno svenduto scuole e ospedali, pensioni e diritti, acqua, luce, gas, petrolio, rame, ferrovie, in un’America Latina che loro hanno ridotto alla fame.


Technorati Parole chiave: , , , , , , , , , , ,