Riforma Gelmini dell’Università in anteprima: rinnovamento a costo zero o macelleria sociale?

gelmini Il testo del disegno di legge delega che riforma profondamente l’Università italiana sarà portato dal Ministro Mariastella Gelmini nell’imminente prossimo consiglio dei ministri per andare quindi in Parlamento. Non se ne parla affatto perché sta bene un po’ a tutti, governo, opposizione e perfino alla conferenza dei Rettori.

Ma è bene che se ne discuta nel paese perché concerne il principale strumento che ha l’Italia per restare nella pattuglia dei paesi più avanzati. Affossato (o affossatosi o era semplicemente un miraggio) il movimento dell’Onda, il dibattito nelle università e nel paese è stato in questi mesi azzerato per trasferirsi in ristrettissime commissioni vicine al ministro.

Ma il progetto Gelmini rappresenta un cambio paradigmatico della nostra università. Questa diviene una sorta di mostro unico al mondo, né privata né pubblica, ovvero resta pubblica ma il controllo viene assegnato ai privati. Inoltre, come già successo per la scuola, minaccia di bruciare un’intera generazione di giovani ricercatori. Giornalismo partecipativo ha letto in anteprima il testo del disegno di legge e lo analizza punto per punto.

L’Università come parafulmine

La prima cosa che salta all’occhio è lo specchietto per le allodole di un “articolo uno” che dà sei mesi di tempo alle Università per dotarsi di codici etici e norme contro il conflitto di interessi. L’Università intera sarebbe una Cayenna di corruttele e sprechi ma Mariastella Gelmini è disposta a contare fino a tre per farci uscire in fila indiana con le mani dietro la nuca prima di bombardare. È con questo argomento che tra qualche giorno verrà presentata la riforma all’opinione pubblica: finalmente il governo mette fine alle porcherie dell’Università. Sarà vero?

La sostanza è che si parte con un esercizio retorico e propagandistico per il quale il governo di Silvio Berlusconi (che di conflitto d’interessi potrebbe dar lezioni a chiunque) individua in un generalizzato familismo il principale problema del sistema di educazione superiore nel paese e promette di risolverlo con la spada come con i rifiuti in Campania. È una maniera come un’altra per evitare di far discutere della questione principale rappresentata da un finanziamento ordinario largamente al di sotto delle medie OCSE e ulteriormente e pesantemente ribassato da questo governo per gli anni a venire.

La Gelmini e con lei i media al suo servizio, faranno un gran parlare di merito e di valutazione (molto bene) ma eluderanno il problema che senza risorse l’università italiana continuerà a non offrire opportunità ai meritevoli e non metterà i migliori in condizione di lavorare. Il fatto che nelle more di tale penuria facciano carriera alcuni immeritevoli o impresentabili è un problema reale. Ma piazzarlo come incipit a quella che pretende di essere una riforma universitaria è una mossa propagandistica offensiva nei confronti di chi ha vinto concorsi universitari senza essere figlio o figlioccio di nessuno e che con difficoltà continua a far ricerca e a formare le future generazioni. È evidente che il far credere (ben supportato da giornali come “il Corriere della Sera”) che l’Università sia una nuova Gomorra, per poterne quindi fare strame col consenso dei media e dell’opinione pubblica, è una manovra uguale alla reintroduzione del grembiule o del voto in condotta nelle scuole: parlar d’altro, delegittimare, per far passare nel silenzio le parti più vergognose di una riforma che pure nelle bozze non appare tutta da buttare.

Organi decisionali: l’università in mano ai commercialisti

Il punto chiave in negativo è che la nuova Università di Mariastella Gelmini e di Silvio Berlusconi sarà governata da esterni di nomina regia. Infatti ogni Consiglio di Amministrazione degli atenei pubblici avrà solo una minoranza di rappresentanti eletti tra chi nell’Università vive e lavora, tra questi il Rettore. Il CdA sarà invece governato da una maggioranza di esterni che per legge non dovranno avere nulla a che vedere con l’Università stessa e invece, si presume, molto a che vedere col governo.

Come ha titolato giorni fa “Il Secolo XIX” di Genova, nelle parole del filosofo del diritto Mauro Barberis, “le Università nelle mani dei commercialisti”. E sarà proprio così, la maggioranza del consiglio di amministrazione delle Università pubbliche italiane sarà dominata da persone completamente esterne. Supponiamo che ci sarà un rappresentante della Confindustria, quello della locale Cassa di Risparmio, magari quello della Curia, dello sponsor della squadra di calcio e perché no, dei Carabinieri o della Questura o perfino dell’Amministrazione comunale o regionale e della Corporazione de’ Calzaiuoli. Ancor più misterioso è chi saranno i consiglieri stranieri previsti dalla legge e chi li selezionerà e designerà. Quel che è certo è che non saranno prestigiosi cattedratici chiamati a far crescere i nostri atenei perché anche loro dovranno essere esterni al mondo dello studio e della ricerca. Saranno allora forse funzionari del Fondo Monetario Internazionale, quelli che per cinquant’anni hanno consigliato i paesi del Sud del mondo di tagliare i fondi all’educazione? L’importante, è scritto nero su bianco, è che tali individui, italiani e stranieri, abbiano competenze “prevalentemente gestionali”. Come i manager delle ASL che governano la nostra salute non devono aver giurato fedeltà a Ippocrate e nulla devono sapere di fisica o biotecnologie e men che meno di filosofia e non sia mai che sappiano di diritto costituzionale. Quel che importa sono le competenze gestionali.

Quest’ultimo dettaglio fa capire che da domani essere un luminare che abbia competenze prevalentemente nella propria disciplina sarà un titolo di demerito che porterà a una patente di inabilità a governare l’Università dove si lavora. Che le caste baronali abbiano spesso dato pessima prova di sé è un fatto ma i rappresentanti di interessi privati che vengono a gestire soldi pubblici senza essere eletti da nessuno ma nominati che garanzie offrono?

Università ancora pubblica ma…

Non sfugge che l’Università della Gelmini resti pubblica. Probabilmente perché, dopo alacri consultazioni, privati che se le comprassero proprio non se ne sono trovati. Colpisce infatti che in pochi mesi l’enfasi sia passata dalle Fondazioni (ovvero la privatizzazione di fatto prevista fino a pochi mesi fa) al mettere nelle mani dei privati Università ancora pubbliche.

L’Università resta pubblica nel senso che funzionerà ancora con soldi pubblici, anche se sempre meno, ma sarà completamente controllata dai privati. Cosa vengano a fare i privati è facile da dirsi nei proclami: cultura aziendalista, efficienza, rapporto con l’impresa, l’unica “I” superstite visto che d’inglese continuiamo a masticarne poco e di Internet semmai saremmo costretti a parlarne per le voglie di censurarla come in Cina. In realtà si possono pensare anche motivazioni ancor meno cristalline. Preso il controllo dei Consigli d’Amministrazione di istituzioni pubbliche è possibile che non trovino di meglio che fare da apripista ad una cartolarizzazione dell’importante patrimonio immobiliare delle Università che messe alle strette e senza soldi saranno indotte a vendere i gioielli di famiglia?

E di nuovo: chi saranno materialmente i nuovi consiglieri d’amministrazione esterni? Chi saranno le nuove figure amministrative aliene dall’Università ma inventate per l’occasione e innestate in un corpo che di certo non è sano ma che potrebbe morire di questa cura da cavallo? Qualcuno avanza già ipotesi. In Italia ci sono a spasso centinaia di manager fino a ieri strapagati e fatti fuori dalla crisi. Son proprio loro ad avere competenze “prevalentemente gestionali” dimostrate in mille Alitalia. Parte di questa disoccupazione pregiata (e con buone entrature politiche ed economiche) potrebbe riciclarsi nell’Università facendo a prezzi salatissimi quello che fino a oggi i docenti universitari hanno fatto nel loro normale lavoro.

Non c’è bisogno di far tanti discorsi: per il governo le università e solo le università non sarebbero in grado di gestire se stesse. Non lo sarebbero per antonomasia. Sarebbe interessante se il governo provasse a far lo stesso (è un esempio) con lo Stato Maggiore dell’Esercito lasciando i generali in minoranza e affiancandoli con esperti esterni. In fondo basterebbe che il “Corriere della Sera” scrivesse tre o quattro articoli, magari un editoriale di Francesco Giavazzi o una puntuta inchiesta di Gian Antonio Stella su quel che da sempre si dice che sparisca dalle furerie delle caserme, per convincere l’opinione pubblica che i generali proprio non sanno badare a se stessi.

Per far posto e separare anche fisicamente il nuovo Consiglio d’amministrazione dominato da esterni nominati dal Ministro (o almeno nulla si dice se non che non saranno cariche elettive) che sarà il nuovo cuore della vita universitaria, dovranno sparire le storiche Facoltà per essere sostituite da un più ampio raggruppamento, le “scuole” alla statunitense con funzioni molto limitate di gestione di strutture comuni. Saranno infatti i dipartimenti, rafforzati nelle dimensioni, ma non nei fondi disponibili, a non doversi occupare più solo della ricerca ma a prendere in mano anche l’organizzazione dei singoli corsi di laurea. Per carità nessuno sostiene che non sia utile cambiare, ma almeno sulla carta sembra una rivoluzione che serve soprattutto a verticalizzare ancora di più la gestione delle università.

L’abolizione delle Facoltà come corpo intermedio di potere, sostituite da scuole che delegano la loro funzione essenziale ai dipartimenti, aumenta infatti a dismisura il potere di consigli di amministrazione calati dall’alto e da fuori.

Inoltre il testo fa un gran parlare di fusioni, accorpamenti, federazioni tra Università. Vedremo cosa resterà nella pratica e quante saranno realmente queste fusioni ma è rilevante che ciò rappresenta un definitivo cambio di paradigma tra l’Università diffusa nel territorio, le famose 200 università volute da Confindustria fino a pochi anni fa, e l’esigenza di razionalizzare. Confindustria, che le sedi distaccate e la proliferazione dei corsi ha preteso in passato, a volte senza stare ai patti e sempre con denari dello Stato, adesso ne gestirà la chiusura. Il lupo a guardia delle pecore.

Stato giuridico dei docenti universitari

La trasformazione più importante è una parziale caduta della separatezza tra le tre fasce di Professore ordinario, Professore associato e ricercatore (o Professore aggregato come sempre più spesso verrà chiamato). La carriera diviene unica, anche se continua ad essere divisa in tre fasce. Viene introdotto un meccanismo di abilitazione scientifica nazionale (che vedremo più avanti nel dettaglio) ma poi i passaggi che decidono gli avanzamenti di carriera vengono gestiti in maniera ancora più accentrata dalle sedi eliminando quasi del tutto i concorsi.

Se l’Articolo 97 della Costituzione prescrive che "nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso" questo finora si era inteso in maniera tale da prevedere tre concorsi per i tre ruoli. Da domani si accederà una sola volta per concorso e quindi si progredirà tra i tre ruoli se si risponderà a criteri generali di valutazione che comportamento il conseguimento dell’abilitazione scientifica ma soprattutto se graditi alla sede dove già si lavora. Già oggi trasferirsi in Italia da una sede ad un’altra è molto difficile. Con la riforma Gelmini ci si lega in maniera sempre più indissolubile alla sede dove ci si è strutturati che gestirà il 90% delle progressioni di carriera. In teoria non è una cattiva riforma se non si coniugasse con una tradizione di pessima gestione del potere in epoca di autonomia, che la riforma rafforza e non intacca, e con la cronica e accentuata mancanza di risorse. La cooptazione può essere un buon metodo se integrata in un sistema di controlli, contrappesi e penalizzazioni per chi coopta male. Qui l’unico contrappeso palpabile è a monte, l’abilitazione, ma a valle non ci sono né controlli né penalizzazioni rilevanti per chi continuerà, potendo (potrà poco, ma è altro tema), a cooptar male.

Il ruolo unico su tre fasce, ordinario, associato e ricercatore (quest’ultimo sarà espressamente terza fascia docente) che restano e anzi sembrano irrigidirsi nella volontà del ristretto gruppo di consiglieri del Ministro, darà gran spazio alla chiamata diretta o per “chiara fama”. In pratica le sedi dovranno tenere un concorso solo se non sarà disponibile un candidato interno con abilitazione scientifica alla fascia superiore o qualcuno da chiamare per chiara fama. Altrimenti il candidato interno progredirà de plano e senza concorso in un giorno x di un anno y quando chi è al di sopra di lui avrà deciso che sarà venuto il momento. Ovviamente chi ha la speranza di diventare un giorno candidato interno non avrà alcun interesse ad andare a ficcare il naso nei fatti e nei concorsi altrui.

I concorsi da associato e ordinario saranno infatti pochissimi e rigidamente controllati dalla sede, che avrà la maggioranza nella commissione con tre ordinari locali su cinque membri, e si terranno solo quando non ci sarà espressamente un candidato interno. Di fatto i migliori tra quanti avranno conseguito l’abilitazione scientifica, se non avranno una sede disposta a chiamarli, difficilmente progrediranno nella carriera o entreranno in ruolo se esterni, mentre i locali, pur conseguendo un’idoneità striminzita, avanzeranno immediatamente (forse, vedremo) perché così potrà decidere la sede.

Positiva (ricordando che tutto potrà ancora essere stravolto) è invece la riduzione data dall’unicità della carriera della sequenza di conferme necessarie. In pratica oggi uno studioso passa nove anni della sua carriera in una sorta di limbo (ricercatore non confermato, associato non confermato, straordinario) nella quale non è ancora pienamente di ruolo. Da domani il periodo di conferma, portato a quattro anni, accompagnerà solo l’ingresso in ruolo. Quindi chi ha ottenuto la conferma come ricercatore (il caso più tipico) all’avanzamento di carriera diverrà subito pienamente associato o pienamente ordinario. Ad un fatto positivo ne fa subito eco uno negativo. Gli attuali ricercatori e associati non confermati non potranno concorrere per tre anni dall’entrata in vigore della legge per ottenere l’abilitazione scientifica, ciò indipendentemente dal loro valore. Una norma cervellotica e ingiusta che nasconde una delle stelle polari della riforma: senza soldi più si rallentano le carriere fino ad arrivare ad un blocco delle assunzioni mascherato e meglio è.

Abilitazione scientifica nazionale e progressione di carriera

Il pezzo forte è l’istituzione di un’abilitazione scientifica nazionale che si coniuga con la detta aumentata discrezionalità delle sedi nel chiamare gli idonei. Ciò appare una soluzione di compromesso tra chi, come Valentina Aprea del PdL o il citato Giavazzi, volevano la totale abolizione dei concorsi e chi riteneva che solo un concorso nazionale, limitando le prerogative nepotistiche delle sedi locali esaltate dall’autonomia, potesse garantire l’emersione del merito.

L’abilitazione scientifica si potrà ottenere per concorso tutti gli anni a settembre e sarà gestita, disciplina per disciplina, da una commissione di otto professori ordinari sorteggiati da una lista di 24 eletti tra tutti gli ordinari della disciplina. Per permettere a tutte le discipline di sostenere tale organizzazione saranno ridisegnati e accorpati i settori scientifici minori in modo da prevedere non meno di 50 professori ordinari per ogni raggruppamento. Agli otto sorteggiati dai 24 eletti si affiancherà un docente straniero. Si ripropone di nuovo la vergogna già paventata dall’ex ministro Fabio Mussi che non riusciva a pensare nulla di meglio che far fare i concorsi a commissari stranieri. Le Università di un grande paese come l’Italia hanno bisogno di un professore straniero che faccia da arbitro? Chi sia questo, chi lo nomina e perché mai dovrebbe mettere freno a pratiche indecenti non è dato sapere. Di nuovo inoltre, perché questa pratica va bene solo per l’università? Visto il degrado etico del paese nel calcio potremmo moralizzare chiamando arbitri dall’estero, potremmo importare macchinisti per far arrivare i treni in orario e potremmo perfino chiamare ministri stranieri al posto dei nostri.

Detto ciò l’abilitazione scientifica nazionale potrebbe essere anche una buona o ottima idea (impedendo che venga ottenuta da chi è scandalosamente immeritevole) se non fosse accompagnata da un sistema che di fatto impedisce ai migliori di essere chiamati nelle sedi preferite, o essere chiamati affatto, e delega completamente alle sedi locali la possibilità di selezionare e chiamare effettivamente.

D’altra parte viene tenuto in piedi, ed appare accettabile, il meccanismo già presentato da tempo per la nuova progressione stipendiale. Ogni due anni tutti gli incardinati saranno tenuti a presentare una relazione scientifica. Solo se approvata (speriamo che non sarà solo pro forma) si potrà ottenere lo scatto stipendiale, si potrà presentare domanda per ottenere l’abilitazione scientifica nel ruolo superiore o, se già ordinari, essere eleggibili alle commissioni di concorso.

Organico del personale docente

Fascia

2007

%

Modello

%

Ricercatori

23541

38%

26500

40%

Associati

18744

30%

21000

32%

Ordinari

19625

32%

18500

28%

TOTALE

61910

100%

66000

100%

La tabella qui sopra è elaborata dal fisico Paolo Rossi dell’Università di Pisa. Per la nuova legge in ogni singola università non potranno esserci meno del 40% di ricercatori e non più del 28% di ordinari. È un numero arbitrario e ciò significa che per molti anni quasi nessuna università potrà permettersi di chiamare un posto da ordinario, con abilitazione scientifica o no, meritevole o raccomandato che sia. La tabella di Rossi, che è semplicemente una proposta dalla quale il governo desume solo le percentuali, non i nuovi posti a concorso bloccati dal turn-over, supporrebbe un percorso di pensionamento di un paio di migliaia di ordinari che farebbero spazio a 5-6.000 nuovi ingressi in ruolo e poche progressioni.

In realtà sono numeri aleatori. Per pensionare rapidamente 1.500-2.000 ordinari, il che rimetterebbe in moto il sistema a costo zero (un ordinario a fine carriera guadagna il triplo o il quadruplo di un ricercatore appena entrato) bisognerebbe davvero che il governo mantenesse il punto di pensionare tutti gli ultra 67enni. Giusto o no non succederà, non solo per motivi poco commendevoli, e questi resteranno in ruolo cinque anni in più, fino agli attuali 72. Di certo resta che nella legge c’è solo quel limite stringente: non più di 28% di ordinari e almeno 40% di ricercatori per ogni ateneo da raggiungere non si sa come salvo che bloccando per anni ogni progressione. Tutto il contrario del rapido rinnovamento di forze necessario al paese.

Elaborando i numeri di alcune università a campione (i lettori possono agevolmente fare prove per altre università), ho trovato solo l’università di Bergamo in regola con i numeri previsti dalla nuova legge.

Università

Totale docenti

ricercatori

associati

Ordinari

Bergamo

339

156 pari al 46%

99, 29,2%

84, 24,7%

Firenze

2.217

785, 35.5%

675, 30,4%

757, 34.1%

Macerata

310

131, 42,3%

80, 25,7%

99, 32%

Napoli

3.014

1.264, 42%

824, 27,3%

926, 30,7%

Roma La Sapienza

4.667

1.979, 42,4%

1.280, 27,4%

1.408, 30,1%

Con poche eccezioni, università col rapporto tra stipendi e docenti in perfetta regola come Macerata o disastrate come Firenze, che spende per il personale di ruolo più del 90% del Fondo di Finanziamento Ordinario, comunque non sono in regola con questi nuovi tetti. A Firenze per esempio, secondo la Gelmini, in questo momento vi sono ben 137 professori ordinari di troppo. Quanto ci vorrà per smaltirli (e se fossero risorse invece?) e permettere nuove assunzioni? Vero o no e ammesso e non concesso che i numerini di cui sopra abbiano un senso, benissimo, assumiamo nuovi ricercatori a migliaia perché ve n’è bisogno e perché l’Italia ha il rapporto più sfavorevole tra docenti e studenti nei paesi OCSE. Ma questo dalla Gelmini non è previsto se non a parole.

Reclutamento giovani

Proprio Firenze in questi giorni è la punta di lancia di un movimento che dovrebbe far parlare di sé. Forse centinaia di “docenti a contratto”, quasi sempre giovani ricercatori precari, hanno deciso che non insegneranno più gratis nella sola speranza che questo faccia merito per ottenere un posto domani. I genitori che pagano le rette universitarie per i figli non sanno infatti che da molti anni una percentuale notevole dei corsi è tenuta da persone disposte a lavorare gratis o quasi.

Qualunque cosa dica la Gelmini o qualunque teatrino metta in piedi la propaganda governativa portando in giro come madonne pellegrine pochi economisti fondamentalisti liberali e oscurando le voci contrarie, la realtà dell’Università italiana è che circa un quarto se non un terzo degli attuali corsi vengono tenuti gratuitamente o quasi, soprattutto da migliaia di giovani studiosi che dovrebbero formarsi studiando e invece dedicano una parte importante del loro tempo a realizzare corvée e con le quali sperono che una piccola percentuale di loro prima o poi potrà costruirsi un futuro.

La Riforma Gelmini in teoria sui giovani direbbe cose interessanti. È prevedibile che saranno le prime a essere cassate vittime di emendamenti. Per esempio, in un ambiente e in un contesto nel quale la mobilità è considerata fondamentale, per la prima volta si scrive nero su bianco che non si può fare tutta la carriera nella stessa sede e si deve vincere un concorso da ricercatore in una sede diversa da quella dove si è fatto il dottorato. Una norma del genere, che chi scrive pensa necessaria da sempre, smuoverebbe molte acque stagnanti. Ma il brividino nella schiena di centinaia di predestinati e “figli di” che sanno già che avranno il posto nella sede dove hanno studiato resterà un piccolo spavento passeggero. Tranquilli: questa norma non passerà.

Di tutt’altro tenore, totalmente inaccettabile, è la norma che stabilisce che il titolo di dottorato, che diventa prerequisito (ma la carriera di uno studioso deve davvero essere condotta per forza in un percorso tutto schematico e interno?), può essere speso solo entro cinque anni dal conferimento dello stesso. Poi diventa carta straccia. Se davvero la Gelmini si ripropone di accorciare i tempi della precarietà universitaria, dovrebbe confermare la parte che elimina la giungla di contratti precari, compresi gli assegni, e dopo il dottorato prescrive un solo contratto da tre o quattro anni da ricercatore a tempo determinato dopo il quale si concorre ad un posto a tempo indeterminato. Sarebbe migliorativo dell’esistente e andrebbe riconosciuto come tale.

Ma è vera macelleria sociale quella che avverrà con gli attuali precari della ricerca espulsi dal sistema a decine di migliaia. Con il virtuale blocco dei concorsi, previsto dalla legge 133 del 2008, che dal 2010 estenderà il blocco del turn-over anche ai concorsi da ricercatore, e col capestro del titolo di dottore di ricerca con la scadenza come lo yogurt cosa succederà agli attuali precari?

Il senso è che la Gelmini ha scelto per la precarietà della ricerca universitaria la stessa spada utilizzata per la scuola: eliminare alcune classi (demografiche) dal gioco prescindendo dal merito, dall’impegno, dall’inclinazione delle persone. Nella scuola ben pochi tra i ragazzi nati tra la fine degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 potranno fare gli insegnanti mentre saranno assorbiti i precari storici per un patto scellerato con i sindacati che prescinde totalmente dal merito e dalle esigenze didattiche. È questa la formula scelta. Quindi il sistema, forse a metà del prossimo decennio, si riaprirà ma sarà troppo tardi per un’intera generazione di aspiranti insegnanti.

Lo stesso sistema adesso si sta per abbattere sull’università anche se nessuno lo dirà a chiare lettere. Chi è precario adesso e sta tra i 30 e i 40 (si ricordi che in Italia si diventa ricercatori in media a 38 anni, quando all’estero si è già ai vertici), difficilmente troverà collocazione. La legge 133 centellinerà gli ingressi fino alla fine della legislatura e dopo nemmeno le Università più virtuose potranno assumere strette dai numeri della nuova riforma.

Il sistema forse si riaprirà tra 5-6 anni e andrà bene per chi adesso si sta laureando o inizia gli studi dottorali. Ma per tutti gli altri, e stiamo parlando di circa 40.000 giovani studiosi, è vera macelleria sociale e l’Università italiana butta via una generazione intera, come se ci fosse una guerra. Alcuni emigreranno, la maggior parte, soprattutto quelli che non hanno famiglie alle spalle, cercheranno altro da fare nella vita. È la guerra dichiarata da Mariastella Gelmini contro l’Università pubblica e i suoi giovani.