Eutanasia, l’uomo è preparato a convivere con le macchine?

Lara Bevilacqua: il delicato tema dell’eutanasia mi tocca da vicino in quanto essere umano che spera nell’immortalità dell’anima ma che ama visceralmente la vita. Dinanzi al più bello dei Paradisi – nel caso in cui la mia anima ne meritasse uno – preferisco il blu del mare, il verde delle colline, il vento fra i capelli, il sole che mi scalda la pelle, i sorrisi di chi incontro per strada, l’abbraccio di chi mi vuole bene… insomma il mondo che vedo, sento, tocco, respiro, assaporo… in una parola che ?vivo? con tutto il mio corpo, amo con tutto il mio cuore e penso con la mia mente.

Ho letto il tuo articolo. Mi ha molto colpita, così come mi ha molto fatto riflettere la citazione di Welby: il problema non è quello di staccare la macchina quanto piuttosto di interrogarci a monte sul diritto che abbiamo di attaccare la spina, nonostante l’amore per la vita.

Il tuo articolo, le poche righe di Welby, così dense di significato, mi hanno fatto ripensare a questo ho ascoltato la scorsa settimana da Umberto Galimberti nella lezione magistrale che ha tenuto al festival della filosofia a Modena al quale quest’anno ho partecipato.

Galimberti  ha riassunto la sua posizione citando il seguente passo di Martin Heidegger (che riporto per esteso perché ho qui fra le mani il libro – “Psiche e teche. L’uomo nell’età della tecnica”-che riporta tale citazione):

“Ciò che è veramente inquietante non è che il mondo si trasformi in un completo dominio della tecnica.
Di gran lunga più inquietante è che l’uomo non è affatto preparato a questo radicale mutamento del mondo.
Di gran lunga più inquietante è che non siamo ancora capaci di raggiungere, attraverso un pensiero meditante, un confronto adeguato con ciò che sta realmente emergendo nella nostra epoca” 
(M. Heidegger, L’abbandono (1959), p. 36)

Ora Heidegger è  sicuramente personaggio molto discutibile: non gli si può perdonare la sua adesione al nazismo. Tuttavia, sebbene moralmente riprovevole rimane un genio teoretico. Miope riguardo al presente che viveva, fu profetico riguardo il futuro a venire.

Ispirandosi a questo passo Galimberti ha enunciato la sua posizione a cui personalmente sento di aderire: viviamo, siamo immersi nell’età della tecnica ?senza possibilità di scampo? ma non possediamo ancora un’etica adeguata al tempo della tecnica. La tecnica si limita semplicemente a ?funzionare?, in sé è per così dire “innocente”, spetta all’uomo darle un cuore e soprattutto una coscienza responsabile. Purtroppo l’essere umano non pare ancora essere all’altezza del compito che il suo tempo gli chiede.
Ora, come spesso fanno i filosofi, Galimberti ?centra? il problema, ma non suggerisce soluzioni. Ammette egli stesso di non averne.

Ritornando all’affermazione di Welby che ha le credenziali della vita e della lacerazione interiore vissuta in prima persona, e per questa ragione vale, a mio avviso, molto di più qualsiasi riflessione dotta, il punto è proprio questo: attacchiamo le macchine ? usiamo la tecnica che abbiamo a disposizione? – ma spesso senza riflettere “se sia lecito ‘attaccare’ o meno quella spina”.

Le macchine sono solo? “macchine”. Come scrivi tu: “palesemente eludono il problema della morte del corpo. Sono macchine pensate in maniera meccanica per allungare la vita del corpo ma non sono state pensate -e non si fanno carico- del problema della mortalità del corpo e della naturalità della morte”.

Ovviamente, penso che attaccare la macchina non sia “demoniaco”. E’ un gesto – oggi possibile grazie al connubio della scienza e della tecnica – che nasce dall’amore per la vita e dal desiderio – proprio perché la amiamo così tanto questa vita – di prolungarla il più possibile per noi e per chi amiamo. Il fatto è, come scrivi tu e sottoscrivo pienamente, che “la morte resta parte della vita per quanto macchine sempre più sofisticate riusciranno in futuro a separare la vita dalla morte”.

La morte fa parte della vita. “Sora nostra Morte corporale, da la quale nullo omo vivente po’ scampare” diceva Francesco d’Assisi. Addirittura ?Sorella? la chiamava.
Al di là dell’arduo compito a cui invitano, mi sembrano queste, altre parole di saggezza su cui tornare a riflettere in questi tempi di “macchine meravigliose”.


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