“In quanto bielorussi”, la corrispondente da Mosca de La Stampa scrive a GennaroCarotenuto.it su Maria

Francesca Sforza, la corrispondente da Mosca de La Stampa di Torino, che ha visitato l’orfanotrofio di Veleika, dove la bambina bielorussa ospite a Cogoleto sarebbe stata oggetto di violenze, ci scrive. Unica in tutti i media nazionali Sforza aveva sollevato il dubbio che l’orfanotrofio non fosse esattamente quello che i coniugi liguri descrivevano come un lager. Ne avevo riferito qui. Sottolineo che, nonostante Sforza scriva in un importante quotidiano, nessun media abbia ripreso, neanche in maniera dubitativa, quanto da lei scritto. Il suo articolo è caduto completamente nel vuoto. La verità ufficiale era evidentemente già scritta.

In quell’ “in quanto bielorussi” e in quell’ “in quanto italiani” la giornalista de La Stampa ci fa riconoscere pienamente la campana di vetro di pregiudizi nella quale, assecondati dai media, vivono troppi italiani e in Francesca Sforza trovo una sensibilità che condivido e sento vicina. In quella “voglia di capire, prima che di giudicare”, sento un imperativo etico dal quale i media e l’opinione pubblica stessa stanno abdicando. Ringrazio Francesca per questo ulteriore importantissimo contributo che invia a GennaroCarotenuto.it:

Ho ricevuto molte attestazioni di stima, tanti complimenti e come è giusto che sia, anche qualche critica. Approfitto del vostro spazio per dirvi la mia personale opinione, che mi sono astenuta dal mettere per iscritto nel reportage, non per timidezza ma perchè non era quello il mio compito in quel frangente. Il fatto che l’orfanotrofio di Veleika non sia il lager che sembrava, non significa che Maria non possa avervi subito violenza. Purtroppo gli episodi di violenza sui minori non conoscono limitazioni geografiche, né distinzioni di censo. La questione a mio avviso è un’altra: nel momento in cui fosse stata accertata, da parte della coppia di Cogoleto, un’eventuale violenza nei confronti della piccola, cosa li ha spinti ad agire così, trattenendo la bambina e scegliendo la strada dello scontro con l’orfanotrofio, anzichè quella della collaborazione? Non avrebbero ad esempio potuto prendere l’aereo insieme alla bambina e affrontare la questione in loco, chiedendo l’apertura di un’indagine interna, l’individuazione dell’eventuale elemento violento e garantire di conseguenza la salvaguardia della piccola e degli altri bambini? Gli stessi coniugi – in un’intervista alla Stampa – hanno poi riconosciuto che il direttore dell’istituto e i suoi collaboratori sono persone attente e dedite, e allora come mai non hanno pensato di potervi collaborare, magari con l’assistenza di un educatore italiano o di un’autorità competente? In questo credo che l’opinione pubblica italiana – media in prima linea – abbia avuto una sua responsabilità, accreditando in fondo l’opinione che “in quanto bielorussi” i responsabili dell’istituto non sarebbero stati in grado di gestire la cosa, o peggio, di porsi di fronte alla questione con l’affetto e la generosità che noi, “in quanto italiani”, avremmo invece saputo mettere in campo. Forse mi sbaglio, ma l’impressione è che in fondo sia stato questo il retropensiero della coppia e di chi ha sposato da subito la tesi del lager bielorusso. Il fatto che non sia un lager probabilmente non cambia di molto la sostanza della vicenda, ma certo sposta di qualche grado l’angolatura dell’intera storia, chiamando tutti – me per prima – a riflettere sulla continua necessità di approfondire, verificare, e lasciarsi conquistare dalla voglia di capire, prima che di giudicare. Un caro saluto a tutti, di cuore
Francesca Sforza


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