Cuba dopo cinquant’anni di Rivoluzione, il contributo di Gianni Minà

che_guevara_fidel_castro Quella notte del 1° gennaio 1959 in cui Fulgencio Batista, il dittatore che governava Cuba con la complicità della mafia italo-americana, fuggì a Santo Domingo con un aereo carico di dollari nessun politologo o editorialista Usa si azzardò a presagire che il movimento di liberazione di Fidel Castro, Che Guevara, Camilo Cienfuegos che era riuscito a cacciare quell’ex sergente sadico e torturatore, avrebbe guidato per decenni l’isola dei Caraibi, da sempre la più ambita dagli Stati uniti.

D’altronde, storici e critici di Cuba di ieri e di oggi sono stati sempre smentiti dagli eventi. Dall’insuccesso patito dai controrivoluzionari appoggiati dalla Cia nel tentativo di sbarco nella Baia dei Porci al collasso del comunismo Est-europeo che non si portò dietro quello della rivoluzione cubana, dalla drammatica stagione del periodo especial (quando Cuba, negli anni ’90, perse i partner commerciali del mondo comunista ormai in dissoluzione e rischiò la fame, ma sopravisse) all’infermità di Fidel Castro, solo due anni fa, che pose l’interrogativo di sempre: che ne sarà della Revolución dopo di lui?
E invece Cuba non si è persa, è lì, e festeggia i 50 anni della rivoluzione proprio mentre l’afro-americano Barak Obama assume, per la prima volta nella storia, la presidenza degli Stati uniti.
Due eventi epocali, in qualche modo collegati fra loro, perché sono i governi di Washington, a tenere da 50 anni in stato d’assedio politico l’isola più vasta dei Caraibi, colpevole, in definitiva, solo di aver rifiutato, ad un certo momento della propria storia, il credo indiscutibile del capitalismo e di essere scampata finora alle conseguenze di questo azzardo.
Così, per ironia della storia, ora saranno proprio le scelte che Obama farà sulle relazioni con Cuba, magari abolendo o attenuando l’immorale embargo (condannato quest’anno dall’Assemblea dell’Onu per la 17a volta consecutiva), a cambiare o no il futuro della terra di José Martí, l’eroe nazionale che già più di 100 anni fa, al tempo della guerra d’indipendenza dalla Spagna, intuì che il problema dell’autonomia e sopravvivenza cubana stava proprio nelle mire espansionistiche Usa.
Per questo è già incredibile che Cuba, autonoma, indipendente e socialista, ancora esista dopo anni di ostilità della più poderosa potenza del mondo, segnati da tentativi incessanti di destabilizzazione politica e da atti terroristici impuniti preparati in Florida e New Jersey e compiuti nell’isola con copertura Cia e nel completo disinteresse delle cosiddette democrazie occidentali.
È singolare poi che la resistenza di Cuba sia diventata un esempio in America latina, un continente per anni martoriato dal Plan Condor, un progetto di annientamento di ogni opposizione progressista voluto dal presidente Nixon e dal segretario di stato Kissinger, negli anni ’70.
Ma è ancora più emblematico che Cuba festeggi nel momento in cui, dopo il muro di Berlino è crollato anche il muro del capitalismo. Una constatazione che fa leggere diversamente, con un sorriso beffardo, le critiche alle scelte «azzardate» fatte da Cuba 50 anni fa.
La Revolución, pur non esente da errori, contraddizioni e illiberalità, festeggia infatti mezzo secolo di sopravvivenza con la più bassa mortalità infantile dell’intero continente americano, la più alta media di vita del Sudamerica, un sistema sanitario esemplare.
Ma la Revolución sente anche l’orgoglio di aver influenzato, come ha ricordato recentemente il presidente brasiliano Lula, il riscatto e le scelte di progresso in atto in America latina, non solo in Brasile ma in Argentina, Venezuela, Bolivia, Ecuador, Paraguay e, con caratteri più tenui, in Uruguay e Cile.
Ho sentito Lula spiegare questo concetto all’ambasciata brasiliana di Roma ad un sindacalista della Cisl chiaramente scettico sui rivoluzionari cambiamenti sociali in marcia: «Senza la resistenza di Cuba e il sacrificio di tanti Che Guevara, questo vento di autonomia e democrazia non sarebbe ancora soffiato in America latina».
Faceva tenerezza, quella sera, vedere parte della sinistra italiana, assolutamente incapace di capire cosa sta accadendo in America latina. E mi sono ricordato di un interrogativo che mi ha posto una volta Tomas Gutierres Alea (Titon) regista cubano di Memorie del sottosviluppo, oltre che di Fragola e cioccolata e Guantanamera): «Cosa ha fatto la sinistra italiana o europea per pretendere di insegnarci quello che dobbiamo fare? Noi la rivoluzione l’abbiamo fatta. E voi?». La realtà è che le notizie che denunciano le strategie imbarazzanti degli Usa in America latina non trovano posto nella comunicazione delle cosiddette democrazie occidentali.
Solo nel 2007, per esempio, Washington, «per favorire un cambio politico» rapido e drastico nell’isola ha stanziato per l’operazione Cuba Libre (un ulteriore progetto di destabilizzazione dell’isola con il varo di una vera strategia della tensione) 140 milioni di dollari (60 del Congresso e 80 prelevati dalla disponibilità personale del presidente) e nel 2008, nonostante l’esplosione della crisi finanziaria, i contribuenti nord-americani hanno dovuto sborsare, senza essere consultati, 45 milioni di dollari per lo stesso obiettivo. Un’operazione azzardata diventata pubblica grazie a una lettera aperta di James D. Cockroft, docente all’università di Stanford e studioso della politica estera e della «storia occulta» degli Stati uniti. Michael Parmly, responsabile dell’ufficio di interessi Usa a L’Avana aveva facilitato trasferimenti di denaro a Martha Beatriz Roque, fino a poco tempo fa indicata come una leader dei dissidenti cubani. Il denaro, oltretutto, proveniva da una fondazione diretta dal noto terrorista Santiago Alvarez, attualmente in carcere a Miami, dovendo scontare una condanna (4 anni poi ridotti a 30 mesi), perché scoperto in possesso di un enorme arsenale di armi. Quella Santa Barbara – ha sostenuto Alvarez – doveva servire per attacchi contro Cuba. Ma il diplomatico Parmly aveva esagerato concedendo addirittura un prestito di denaro pubblico all’intrepida dissidente Martha Roque «fino a quando Santiago Alvarez non li avesse resi».
Com’è stato possibile per la Revolución, in questo contesto, durare 50 anni? Bernardo Valli, che in gioventù la visse e la raccontò, afferma su La Repubblica che a questa domanda molti cubani sorridono, alzano gli occhi al cielo e citano alla rinfusa tanti motivi: il carisma di Fidel, il sostegno dei campesinos emancipati dalla rivoluzione, le rimesse degli esuli cubani negli Usa e i Comitati di difesa della rivoluzione.
Valli, alla fine, indica però questi ultimi come la vera macchina della sopravvivenza del paese attraverso la quale tutto va al suo posto: l’igiene, la sicurezza, la disciplina rivoluzionaria, la lista delle persone segnalate come «asociali», le dispute familiari, la prevenzione degli uragani e perfino la sorveglianza della frequenza scolastica dei minori.
Io penso invece che abbia ragione Alfonso Sastre, il prestigioso drammaturgo spagnolo (presente a L’Avana due anni fa insieme a García Marquez, Bonasso, Gerard Depardieu, Ignacio Ramonet e il regista argentino Fernando Solanas per il 50° anniversario dello sbarco del Granma) quando afferma che Cuba ha resistito, pur con tutte le sue contraddizioni, per aver saputo creare fra la gente una coscienza collettiva e solidaristica. Una coscienza che è passata sopra i contrasti e gli errori, e resiste nel tempo.

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