E io mi mangio il pilota!

Confesso che quando qualche anno fa mi trovai al check-in dell’Aeroporto Merino di Santiago del Cile, e scoprii di dover volare in compagnia della nazionale giovanile di Rugby dell’Uruguay, fino all’atterraggio a casa a Montevideo non pensai ad altro che a questa vecchia storia…

Venerdì 13 ottobre 1972, un aereo uruguayano che portava 45 passeggeri in Cile, tra i quali una squadra di rugby, precipitò sulla Cordillera delle Ande. Dodici passeggeri morirono per la caduta. I sopravvissuti restarono a trenta gradi sotto zero, provarono a resistere con le scarse riserve alimentari a bordo dell’aereo, nell’attesa di essere salvati fino a quando la radio dette la notizia che le ricerche per salvarli erano state abbandonate. A quel punto i sopravvissuti, già allo stremo, si videro costretti a mangiare i loro compagni morti per continuare a vivere. Solo dopo due mesi e mezzo, una spedizione di due dei rugbisti riuscì a raggiungere un villagio cileno e chiedere soccorsi. In questo modo il 22 dicembre del 1972, dopo 72 giorni di antropofagia a 30 gradi sotto zero, 16 superstiti furono portati in salvo. Dalla loro storia, che all’epoca ebbe eco mondiale, fu tratto il film “Vivono!”

Traduco di seguito l’intervista a Carlitos Páez, uno dei sopravissuti, apparsa qualche giorno fa sul quotidiano La Vanguardia di Barcellona.

E io mi mangio il pilota, disse Nando!

Ho 52 anni. Sono nato a Montevideo. Sono consulente di imprese pubblicitarie. Sono divorziato ed ho due figli e tre nipoti. Politica? Socialismo umano. Dio? O lo senti o non è niente. A 19 anni fui il più giovane dei sopravvissuti. di Víctor-M. Amela (tr. it. Gennaro Carotenuto)

Che posto è meglio chiedere in aereo?

-Corridoio, senza dubbio.

E era lì…?

Sì. Ero lì venerdì 13 ottobre 1972… quando l’aereo precipitò sulle Ande. Stare sul corridoio mi salvò. Il mio amico Echebarren mi aveva chiesto il mio posto al finestrino per fare delle foto delle Ande, per la fidanzata: ci eravamo scambiati il posto pochi minuti prima dell’incidente.

E il suo amico morì nell’incidente.

Sì. Dei 45 a bordo, siamo sopravvissuti all’impatto in 26. L’aereo è caduto a 400 all’ora. Scivolò nella neve e si frenò contro un’erta.

Da cosa fu causato l’incidente?

Ad un errore del pilota, che iniziò a scendere prima del tempo e fu sorpreso da una turbolenza.

Lo ricorda o perse conoscenza?

Ricordo tutto. Quando cademmo nascosi la testa tra le gambe. Il mio cervello penso mille cose in pochi secondi. Pensò che preghiera dire, pregò, mi mostrò immagini delle mie sorelle.

E poi?

La sensazione di freddo. Eravamo a 4.200 metri, in un punto della cordigliera isolato tra l’Argentina e il Cile.

Che fecero il primo giorno?

Aspettare. Credevamo che ci sarebbero venuti a salvare. E soffrire: con temperature tra -25º y -40º gradi, senza fuoco né vestiti pesanti si soffre. Durò un’eternità. 72 giorni. Alcuni dei feriti morirono nei primi giorni. Quelli che restavamo, eravamo 16, al decimo giorno sapemmo che saremmo morti.

Perché dal decimo giorno?

Non mangiavamo da dieci giorni. E in quelle condizioni non senti fame ma solo un dolore allo stomaco. e la coscienza di avvicinarci alla morte. Quel giorno, attraverso la radio sapemmo che avevano smesso di cercarci. Fu disperante, ma allo stesso tempo quella notizia ci salvò la vita.

Perché?

Perché quel giorno ci muovemmo. Fino ad allora avevamo atteso la salvezza dall’esterno. Da quel giorno cominciammo a salvarci da soli.

Cosa fecero?

Dipendere solo da noi stessi. E’ stata una lezione per tutta la vita e lo racconto sempre: non aspettare che nessuno risolva i tuoi problemi, tu hai le risorse per farlo! Cominciammo a fare incursioni nei dintorni, a cercare soluzioni e decidemmo mangiare carne umana.

Di chi fu l’idea?

Tutti ci pensavamo ma nessuno aveva il coraggio di proporlo. Ma quel giorno Nando mi disse: “Carlitos, io mi mangio il pilota”.

E lei che pensò?

Che ne aveva diritto. Per colpa del pilota erano morte sua madre e sua sorella.

Non ci furono problemi morali, culturali?

Quando ne parlammo nessuno si oppose. Fu una cosa naturale. La necessità ha la faccia dell’eretico… Alcuni di noi erano studenti di medicina. Con dei pezzi di vetro si incaricarono di tagliare i pezzi di carne.

Senza fuoco non li potevano cuocere.

No. Per il freddo la carne era semicongelata. Non sapeva di niente. Ce lo hanno domandato mille volte e tutti ci hanno giustificato. Eccetto i coreani. Loro non approvano e ci rimproverano.

Cuanti corpi mangiarono?

Non lo so, dal decimo al settandaduesimo giorno. Ma ricordo un atto eroico del mio amico Nando Parrado.

Questo lo emoziona?

Sì, ancora oggi al ricordarlo. Si offri per una delle spedizioni. Doveva attraversare le montagne fino ad incontrare qualcosa, poteva morire e prima di partire… ci diede il permesso di disporre di sua madre e sua sorella. E’ eroico: lo fece per scaricarci del rimorso quando fosse arrivato il momento.

Come fu cambiato dall’esperienza?

Avevo 18 anni, ero un bambino bene, un buono a nulla, viziato. Mia madre mi portava la colazione a letto. E lassù cominciai a scoprire che anch’io potevo fare qualcosa. E sempre spiego quello che ho imparato: sul lavoro ci siamo convertiti in lider. Yo un viziato che non avevo mai fatto nulla, mi misi a lavorare. Perché non tutti lavoravamo in quei giorni. Gli altri li chiamavamo “pensionati”. Vivevano di quelli di noi che si sforzavano. Potevano fare ma non fecero nulla: oggi li chiamerei “figli di puttana”.

Come cambiò la sua vita dopo?

Dopo… venne la seconda cordigliera. E fu più difficile sopravvivere alla seconda che alla prima, quella delle Ande. Al ritorno mi si rivoltò il mondo. Flash, riviste, televisioni, Hollywood, capi di stato… Mi sentii dio: diventai tossicodipendente e alcolizzato. E sono stato vicino alla morte.

Con tutto quello che aveva lottato per sopravvivere!

Sì, ma reagii e riuscì ad uscirne e vivere! E questo fu più meritevole che sopravvivere sulle Ande!