Nasce fra la gente l’Africa di domani

La società civile, che per anni si è organizzata e ha resistito nel silenzio, esce allo scoperto e domanda di contare.
di Eugenio Melandri
Pochi qui da noi conoscono Ellen Johnson-Sirleaf. Una sessantenne liberiana che nel novembre scorso è stata eletta Presidente della Libe­ria. La sua elezione alla più alta carica del proprio paese, rappresenta forse il simbolo di un’Africa che sta trasfor­mandosi. Prima donna Presidente nel Continente e in un paese che negli ulti­mi anni è stato protagonista di guerre senza fine. La decisione del popolo libe­riano è il segnale preciso di una svolta, che, si badi bene, va al di là dei risultati stessi che la Nuova Presidente del paese riuscirà ad ottenere. Il segnale, infatti, viene dalla gente, dalla società civile che si è organizzata, dalle donne di questo paese che, con questa elezione hanno voluto dimostrare la loro voglia di cam­biamento. Basta coi presidenti ?armati?, con i signori della guerra. E’ il grido che da questo piccolo paese è partito per il mondo intero. L’Africa vuole tornare a vivere, poggiandosi, certo, sulle capaci­tà e sulla competenza di una personalità riconosciuta anche a livello internazio­nale (Ellen Johnson-Sirleaf ha lavorato per lungo tempo nelle organizzazioni internazionali), ma soprattutto parten­do dalle sue peculiarità, di cui la donna africana è la prima portatrice. Un’Africa che vuole tornare ad essere se stessa.

Segnali di cambiamento

Forse è questa la grande novità dell’Afri­ca negli ultimi anni: l’irrompere prepo­tente della società civile – soprattutto delle donne – che per anni si è organiz­zata nel silenzio e che ora invece, poco alla volta esce allo scoperto, assumen­dosi delle responsabilità.

Nello scorso mese di dicembre si è svol­to nella Repubblica Democratica del Congo il Referendum che ha approvato la nuova costituzione in vista delle ele­zioni e della definitiva uscita del paese dalla crisi politica che ormai da anni lo percorre. Chi conosce la profondità della crisi di que­sta regione sa bene che appare quasi miracoloso il fatto che si sia potuto votare. Che questo voto sia avvenuto in un clima di calma, anche se relativa. Che la gente, at­traverso il voto, abbia potuto final­mente dimostrare la propria voglia di pace. Certo, la pace non è ancora arrivata nella Re­gione dei Grandi Laghi. Ci sono ferite che fanno fatica a rimar­ginarsi e, come tutti sanno, i si­gnori della guer­ra remano contro perché, in assenza di conflitto, sono più difficili i traffi­ci illeciti. Ma è pur vero che qualcosa si sta muovendo. In Burundi è sta­to eletto un nuovo presidente: Pierre Nkurunziza, mettendo così fine ad una guerra che durava da oltre dieci anni. In Ruanda, è vero, il Presidente Kaga­me ha creato una sorta di regime che mantiene al potere una minoranza (le elezioni, infatti, sono state tutto meno che libere) e continua, in nome (o con l’alibi) della sicurezza del proprio pae­se, a destabilizzare la regione orientale del Congo. Ma è pur vero che si trova, nonostante gli appoggi internazionali, a dover far fronte ad una resistenza della società civile del Congo che, malgrado il tempo che passa, continua in forme sempre nuove e originali.

Intanto la Corte Internazionale di Giusti­zia ha dichiarato l’Uganda responsabile di violazione della sovranità territoriale del Congo e dei crimini commessi dalle proprie truppe durante la guerra che ha insanguinato i Grandi Laghi dal 1998 al 2003. Un verdetto pesantissimo, che ha dato ragione alle autorità di Kinshasa, intenzionate a chiedere all’Uganda un risarcimento tra i 6 e i 10 miliardi di dol­lari. Un verdetto che, soprattutto, mette fine alla spirale di impunità che finora ha protetto i responsabili della ?prima guerra mondiale africana?.

In Sierra Leone, un paese che per oltre dieci anni è stato teatro di una guer­ra spaventosa, continua il processo di riconciliazione portato avanti insieme dal governo, eletto democraticamen­te, e dalla società civile. Dopo la svol­ta democratica nella vicina Liberia, è pensabile prevedere il rafforzamento in tutta l’area della pace e della demo­crazia. Anche in presenza, nella vicina Guinea, di una crisi politica potenzial­mente esplosiva.

La Francia di sempre

Continua intanto, in Africa Occidenta­le, la crisi della Costa D’Avorio, dove governo nazionale e ribelli si fronteg­giano sulle spalle della maggioranza della popolazione che a questa guerra appare completamente estranea. Giochi di potere che si svolgono anche all’om­bra della crisi del modello neocoloniale francese. Che, se continua a perseguire i suoi scopi, anche appoggiando governi che di democratico hanno solamente il nome ? basta pensare ai rieletti presi­dente Comparoé in Burkina Faso e Bon­go in Gabon ? manifesta di vivere una crisi profonda. Lo si è visto bene anche nell’ultimo Summit Francese ? Africa­no tenutosi, nel dicembre scorso, a Bamko, in Mali. ?Perché ? si do­mandava un ven­ditore di tappeti ad Aruna ? dob­biamo accogliere questi dittatori sanguinari? Forse dobbiamo impa­rare qualcosa da loro??. Si riferiva forse allo stesso Bongo, oppure al­l’inossidabile De­nis Sassou Ngues­so al potere nel Congo Brazzaville dal 1972, con una breve interruzio­ne dovuta a una catastrofe elet­torale, ma pron­tamente rimesso al suo posto dai francesi (con due guerre civili e mi­gliaia di morti). Su un Summit così di massa, aperto ai ?buoni? dell’Africa e ai ?cattivi?, sono state sollevate perplessità anche dagli organizzatori maliani, in molti dei quali serpeggiava il disagio. ?Come si fa a chiedere il controllo delle armi nel continente se la maggior par­te delle persone che sono sedute nel­l’emiciclo sono trafficanti d’armi??, si domandava retoricamente, scuotendo la testa, una signora incaricata ad alto livello del cerimoniale. ?Parecchi di loro le comprano, altri le vendono? – aggiun­geva. E’ tempo che la Francia riveda le proprie posizioni, anche perché non è più ammissibile che un paese europeo favorisca e appoggi presidenti e governi corrotti e non popolari, solo in funzione delle proprie aspirazioni neocoloniali. E’ il caso di quanto è avvenuto in Togo dopo la morte, nel febbraio scorso, del presidente-padrone Gnassingbé Eyadé­ma. Purtroppo il figlio Faure, dopo un tentativo di colpo di mano, ha garanti­to la continuità degli interessi francesi, riuscendo a farsi eleggere con brogli, intimidazioni e violenze.

Regge la pace in Sudan

Stenta, invece, il processo democratico ad Est del continente. La Somalia da anni vive nelle mani dei signori della le elezioni, pur vinte dal presidente in carica Meles Zenawi, hanno dato molti seggi in parlamento ai partiti di oppoguerra, con l’ecce­zione del Somali­land che, pur tra le contraddizioni, sta portando avanti una strada di convivenza estremamente partecipata e interessante. In Etiopia ­sizione. Un segnale preciso per un pre­sidente che governa il paese come fosse un feudo personale. Segnale che, tutta­via, sembra non aver scalfito la politica di Meles Zenawi, che sembra non voler riconoscere il nuovo corso e continua imperterrito a fare arresti ingiustificati soprattutto nella capitale.

In Eritrea prosegue la deriva autoritaria dell’attuale dirigenza, guidata da Isaias Afweki. Un governo duro che non tollera dissensi. Le voci di opposizione sono messe a tacere, mentre dall’estero i pro­fughi denunciano continue violazioni dei diritti umani. Intanto, alle frontiere tra Etiopia ed Eritrea, proseguono spo­stamenti di truppe che non lasciano ben sperare sulla pace, anche perché i due presidenti sanno di poter usare l’arma del ?nemico esterno? per tenere a bada i nemici interni.

Regge la pace in Sudan, anche dopo la morte di John Garang, vicepresidente del paese e leader del Movimento di Liberazione popolare del Sudan. Il suo successore, prontamente eletto, sembra avere doti sia di governo che di democrazia, capaci di portare avanti il processo di pacificazione.

Prosegue intanto, dall’altra parte del continente, la dittatura di Robert Mu­gabe, in Zimbabwe, mentre l’Angola sta inviando segnali sempre più preoccupati di crisi. In Sudafrica ormai la democrazia appare consolidata, ma la crisi econo­mica e le politiche neoliberiste del governo Mbeki stanno creando una divaricazio­ne crescente tra il partito dell’ANC e la popolazione.

Dal punto di vista economico, l’Africa continua a cre­scere. Il 2005 ha visto l’economia del continente crescere del 5% e, secondo gli esperti, questo trend è destinato a perdurare. Le economie di alcuni paesi danno segnali di ripresa, anche se continua a crescere il gap che divide l’Africa dal resto del pianeta. Dal punto di vista delle relazioni internazionali, va segnalata la crescita esponenziale della presenza cinese in Africa. Con forme di scambio e di cooperazione che a noi sono completamente sconosciute.

Abbiamo fatto una panoramica di alcuni degli eventi principali che si sono svolti nell’anno passato in Africa, senza voler essere esaustivi e, soprattutto, tenendo conto di ciò che è avvenuto soprattutto nell’Africa subsahariana. Il 2005 ha visto, infatti, succedersi eventi importanti anche nell’Africa del Nord. Prima fra tutte la rielezione di Mubarak alla presidenza dell’Egitto. Tutti fatti che manifestano la voglia dell’Africa di essere presente come attore sulla scena internazionale. Anche se la strada continua ad essere lunga e difficile.

L’Africa, infatti, nello scorso anno è stata tante volte anche all’interno delle agende dei Summit internazionali. Basti pensare alle proposte di Blair, durante il vertice del G8 o a tutto il movimento, costruito intorno a questo Summit, che ha visto l’organizzazione di decine di concerti per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica sui drammi e sulle difficoltà che fanno dell’Africa l’ultimo dei continenti.

A dire il vero, nessuno degli impegni assunti è stato realizzato. Spesso ci si è limitati solo ad enunciarli, senza neanche mettere in moto i meccanismi per poterli realizzare.

Ceuta e Melilla

Forse è arrivato il tempo di nuovi ragionamenti e di nuove riflessioni, a partire da ciò che l’Africa oggi sta comunicando al mondo. Ormai tutti ci siamo accorti che la società civile africana sta assumendo, un po’ alla volta, un ruolo sempre più importante e delicato. In tutti i settori: dalla politica, all’economia, alla cultura, all’elaborazione di strategie di pace, alla riconciliazione. Potremmo dire che la società civile sta precedendo – e di gran lunga – anche le istituzioni. Paesi dove la democrazia è un fatto solo formale, dove i presidenti continuano ad essere rieletti in continuazione, dove il mondo politico sembra una realtà a parte, vedono la popolazione che si organizza in forme spesso inedite, per resistere, per gestire in proprio l’economia, per organizzare, con le proprie forze, il futuro. Esiste, in tanti paesi africani, una sorta di organizzazione politica parallela e dal basso, che cerca di convivere con la politica ufficiale, da cui non attende ormai più nulla. Cosa possono attendersi dal governo di Compaorè gli abitanti della periferia di Ouagadougu? Nulla. I segnali che arrivano di là sono solo segnali da cui doversi difendere. Per questo si auto-organizza. Va avanti nonostante il governo ufficiale, preparando dal basso l’alternativa.

Forse per questo è difficile capire l’Africa che si affaccia a questo nuovo anno. Se l’andiamo a cercare interrogando i governi e le istituzioni ufficiali di molti paesi, non troveremo che risposte ovvie e prive di speranza. Ci imbatteremo negli affari sporchi, nei traffici di armi, nella corruzione di chi ha per solo scopo quello di riprodurre il proprio potere.

Se invece la cerchiamo per le strade, nei suoi milioni di villaggi, in mezzo alle donne o fra i contadini o gli operai, troviamo esperienze e ricchezze mai immaginate. Certo, spesso si tratta di esperienze ancora in germe, spesso non in collegamento tra di loro. Ma sono la manifestazione chiara della volontà della gente africana di andare avanti, di non abbandonare, gettandole all’ammasso di un mercato disumano, le proprie ricchezze culturali e le proprie peculiarità. Manifestano che l’Africa vuole continuare a vivere, anche quando le cifre delle vittime delle guerre raggiungono i sei zero. Anche quando malaria e aids distruggono interi villaggi, anche quando i meccanismi perversi di un’economia inventata altrove fanno del continente più ricco in risorse l’icona della miseria. Questa Africa resiste cocciutamente nonostante tutto.

Ma questa resistenza diventa un messaggio e un monito per tutti noi. Per i nostri governi, per le nostre istituzioni democratiche. Se non ci metteremo al suo fianco per rispondere adeguatamente a questa voglia di vivere, allora i drammi si assommeranno ai drammi.

Nel suo discorso introduttivo al Summit ?Francia – Africa? tenutosi a Bamako nel novembre scorso, il presidente maliano Amadou Toumani Touré detto familiarmente Att ha avuto parole molto dure: ?I giovani africani sono disperati. Scappano perché per loro non ci sono prospettive. Affrontano i rischi di un viaggio pericoloso attraverso il Sahara, tra i flutti del Mediterraneo. Qualcuno entra nei carrelli degli aerei pur di andar via. Per loro non vale la pena di restare qui a morire di fame, senza un lavoro e spesso in mezzo a una guerra. Sperano in una vita migliore in Europa, ma spesso muoiono durante il viaggio o vengono rispediti indietro?.

Fra questi due poli, quello della società civile che si organizza e resiste e quel­la di un mondo che discrimina l’Africa, si gioca il futuro non solo dell’Africa, ma anche dell’Europa. A Ceuta e Melilla sta forse la drammatica icona di questa comunanza di destini. L’Africa dei giovani senza speranza bussa alle porte dell’Europa. Non serve rispondere alzando barricate, ponendo fili spinati carichi di elettricità o sparando su chi, disarmato, cerca di raggiungere un luogo dove poter continuare a vivere.

I giovani africani continueranno a fare migliaia di chilometri nel deserto e a tentare di superare i muri europei, anche a costo della vita. Occorre mettersi uno accanto all’altro sapendo che dal­le soluzioni che riusciremo a trovare dipende non solo il destino di un continente abituato ormai da secoli a soffrire, ma anche il futuro di un’Europa che non può più continuare a vivere reggendosi sulle spalle dei poveri.

Articolo Tratto dalla Rivista Solidarietà Internazionale