‘Negli Usa è solo l’inizio della fine. Il centro del mondo torna in Europa’

Intervista al demografo e sociologo francese Emmanuel Todd Nel suo libro ‘Dopo l’impero’ aveva anticipato il declino americano. Tra i meriti dello studioso anche l’aver previsto la dissoluzione dell’Urss “Il vero problema è il deficit commerciale, che rischia di far collassare anche la Cina”

di VALERIO GUALERZI

ROMA – “Più la crisi finanziaria si aggrava, più forte diventa l’Europa. Per l’ascesa di Pechino ci vorrà ancora del tempo e premesso che non sono un esperto di Cina, non escluderei un collasso: il 40% delle loro esportazioni finisce negli Stati Uniti, non credo esistano precedenti di economie così sbilanciate”. Per quanto oggi immaginare una Cina in grossa difficoltà possa apparire fantascientifico, vale la pena tenere a mente queste previsioni perché a farle non è uno studioso qualsiasi, ma Emmanuel Todd, demografo e sociologo francese che può vantare all’attivo due pronostici apparentemente altrettanto temerari divenuti realtà.

Nel 1976, incrociando dati demografici ed economici, nel libro “Il crollo finale – Saggio sulla decomposizione della sfera sovietica”, Todd aveva anticipato l’inevitabilità del tracollo di Mosca. Usando lo stesso metodo di studio, nel 2002, quando alla vigilia della guerra in Iraq tutti inneggiavano agli Stati Uniti come all’unica superpotenza destinata a dominare il mondo, Todd pubblicò “Dopo l’impero – La dissoluzione del sistema americano”, avvertendo che il tempo di Washington stava per scadere.
Dottor Todd, quello a cui stiamo assistendo in questi giorni è quello che annunciava in “Dopo l’Impero”?
“E’ una crisi, una delle tante crisi che colpiranno gli Stati Uniti. Non direi che è la crisi finale. Il declino avviene per vari livelli: il fallimento della guerra in Iraq, l’Afghanistan, l’impotenza in Georgia e ora il tracollo della finanza. Forse siamo all’inizio della fine. Ma l’America ha ancora una certa forza, penso al sistema militare e al dollaro, che in questi giorni si è rafforzato. Per arrivare a toccare il fondo manca il collasso della valuta e del sistema militare e per ora non ci siamo ancora arrivati”.

C’è qualcosa che la sta sorprendendo degli ultimi sviluppi?
“In ‘Dopo l’impero’ segnalavo la tendenza a ritirare gli investimenti dagli Stati Uniti, ma se capire la direzione di fondo è relativamente facile, la parte più difficile delle previsioni è quella sui tempi ed effettivamente sono sorpreso dalla velocità con cui le cose sono avvenute”.
Può ricordare ai lettori come era arrivato a prevedere il crollo Usa.
“In quella fase tutti parlavano dalla forza militare americana, e si mostravano impressionati. Io ho guardato più l’aspetto finanziario, ho analizzato la capacità di produzione, lo stato di salute del sistema educativo, il fatto che era crollato il numero di lauree in ingegneria, solo per fare un esempio. Ho documentato come la base industriale del Paese fosse in affanno, con un aumento incredibile del deficit commerciale. Capire era molto semplice, ma tutti erano ciechi. All’epoca mi sono sentito come il bambino della favola che grida ‘il re è nudo’. Il vero mistero è come sia stata possibile questa illusione collettiva, occorre capire perché tutti volevano continuare a immaginare un potere che non c’era più. Una vera forza americana c’è stata nel dopoguerra e con effetti positivi, ma ora non c’è più. Credo che la soluzione abbia a che fare con il fatto che le classi dominanti in Europa e in Giappone hanno paura di fare a meno del potere Usa e vogliono continuare a crederci. Sono spaventate da un mondo multipolare.
Lei pronosticava anche un inevitabile riavvicinamento tra Europa e Russia. Almeno su questo punto la guerra in Georgia sembra averle dato torto.
Innanzitutto va detto che pur non potendolo dimostrare, sono convinto che la guerra in Georgia è probabilmente l’elemento che ha fatto precipitare la crisi negli Usa. Le difficoltà erano chiare e si trascinavano da un anno, ma sono precipitate quando è stata evidente l’impotenza americana nel Caucaso. Quanto al rapporto tra Europa e Russia, la situazione è ambigua e la risposta è difficile. Credo che la gente abbia capito che quella russa non è una vera minaccia militare, la forza armata georgiana era irrilevante. Inoltre i problemi finanziari, il crollo dei prezzi delle materie prime e la crisi demografica frenano l’ascesa russa e rendono il paese gracile. Mosca sembra forte grazie a gas e petrolio, ma solo quando gli altri stanno bene, ora invece sono nei guai. Non credo ci sia una vera minaccia, mentre la migliore garanzia per un mondo stabile è un rapporto stretto tra Europa e Russia. Gli Usa sono in grave difficoltà per via dello spaventoso debito commerciale e saranno costretti a diminuire il loro standard di vita. Le conseguenze si faranno sentire in maniera forte sulla Cina, che esporta il 40 per cento della sua produzione in America e quindi rischia una sovraesposizione. So troppo poco della Cina per sbilanciarmi in previsioni, ma con questi numeri non escluderei guai grossi per la loro economia. Abbiamo quindi due instabilità da una parte e un blocco stabile (o almeno potenzialmente stabile) dall’altra, reso complementare dall’integrazione tra la base industriale europea e le risorse energetiche della Russia.

Sull’Europa lei ha cambiato posizione nel corso dagli anni, passando dallo scetticismo all’entusiasmo. Ora cosa ne pensa?

Non sono un buon europeo, ero contrario a Maastricht e ho votato contro al referendum sulla Costituzione. Credo che l’idea di un’Europa unita dal punto di visto politico sia disperata, ma sul piano economico è diverso e credo che il centro del mondo, in attesa di un’eventuale ascesa cinese, tornerà ad essere qui. Più è grave la crisi finanziaria, più forte diventa l’Europa. Il potere vero, non quello illusorio, è qui, nel sistema dell’economia reale europeo, che ha il suo cuore in Germania.
Non crede che le elezioni negli Usa possano modificare il corso delle cose?
Fossi americano voterei Obama, su questo non c’è dubbio, ma non cambierà molto. L’enorme debito commerciale pesa come un macigno. Potrà incidere sull’immagine esterna degli Stati Uniti e far durare un altro po’ l’illusione del potere americano. Inoltre i democratici sono solitamente più bravi in politica estera, mentre McCain accelererebbe la perdita di leadership mondiale. Ma ripeto: la questione della crisi economica statunitense è troppo centrale.
Lei è stato anche un feroce critico del liberalismo. Cosa pensa dei proclami sulla fine del capitalismo ascoltati in questi giorni?
Come ha dimostrato il fallimento dell’Urss, non c’è alternativa al capitalismo. Ma quello attuale è il collasso del doppione capitalistico del modello sovietico. L’unico sistema possibile è un capitalismo intelligente che punti ad una politica di espansione salariale, sottoposto a dei controlli e ad uno Stato autorevole.
Nei suoi libri sembra di poter cogliere sempre un fondo di ottimismo, è ottimista anche ora?
Dobbiamo smettere di ragionare in bianco e nero, non si può non essere preoccupati da quanto vediamo. Un collasso delle banche o della produzione, con la conseguente disoccupazione, sarebbe tremendo, ma non sarei certo contento da un ritorno al business as usual. Uscire da questa situazione per me significa andare verso più equità e più redistribuzione della ricchezza. Questa, come ogni crisi, può essere terribile oppure un passaggio necessario verso la scoperta della soluzione: è allo stesso tempo piena di pericoli e opportunità.