BARILOCHE – È perfino comprensibile che in pochi si straccino le vesti per le sorti del governo di Nicolás Maduro per molti motivi. Ma nella nomina di un antipapa ghibellino da parte di Trump e Bolsonaro, nella persona del carneade Juan Guaidó, ci sono almeno altrettanti motivi del perché sia necessario riflettere su un passaggio cruciale della storia latinoamericana del XXI secolo.
È senz’altro vero che da tempo le cose in Venezuela vadano male. Il governo Maduro – al di là delle proprie colpe e debolezze non si possono mai scontare del tutto le responsabilità di chi è al governo – non sembra avere le chiavi per uscire da una crisi che è magnificata dall’iperinflazione, di gran lunga il maggior fattore di destabilizzazione e di peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. È anche vero che negli ultimi anni, usciti dall’auge di consenso e anche economica dei migliori anni del chavismo, il successore dell’odiato negraccio dell’Orinoco, abbia operato una serie di forzature istituzionali (che definire colpi di Stato è però strumentale, della contesa AN/Costituente dirò poi). In particolare, eludendo il referendum revocatorio previsto dalla Costituzione del 1998, e che a suo tempo aveva troncato ogni discussione sulla legittimità di Chávez con un trionfo storico, ha minato quell’ineccepibilità democratica del chavismo stesso, che aveva tenuto a bada i più malintenzionati dei detrattori.
Questo può portare benissimo a considerare il governo Maduro un pessimo governo e a desiderare di cambiarlo, ma pensare di farlo attraverso un processo di regime change, o rivoluzione colorata, che è quanto sta accadendo in queste ore, giocando col fuoco di una guerra civile di un paese armato fino ai denti, contrappone a una discutibile legittimità una sicura illegittimità. È l’illegittimità di un autonominato presidente che ha giurato in un semplice comizio davanti ai suoi, un mero pezzo della rissosissima opposizione, perché dall’estero hanno indotto questo giovanotto poco più che trentenne a quella che è almeno per ora solo una pericolosissima messa in scena.
Fossimo in Norvegia o in Islanda potremmo facilmente affermare che la democrazia dell’alternanza sia una bella cosa e in pochi potremmo preoccuparci per le sorti del governo di Nicolás Maduro, e in generale del cosiddetto socialismo del XXI secolo. Ma le cose sono più complesse e, come abbiamo visto con l’avvento di Macri o Bolsonaro, le destre che riprendono il potere sono sempre innanzitutto revansciste, smantellando innanzitutto le conquiste delle classi subalterne e delle donne. No, non è democrazia levare i pediatri ai bambini, anche se lo volesse il 100%.
Eppure, da quasi vent’anni è tanto e tale il fiume in piena dei media monopolisti (restati sempre tali) contro il chavismo e tutti i governi progressisti latinoamericani, mescolando senza pudore verità a menzogna, da rendere impervio per una persona mediamente informata il risalire la corrente della disinformazione che punta a indicare nell’esperienza integrazionista di inizio secolo, nella sinistra al governo in America latina, come il “male assoluto”. Abbiamo scritto mille volte del cosiddetto lawfare, la guerra giudiziaria che ha toccato ormai tutti i dirigenti politici progressisti latinoamericani, che impedendo a Lula di partecipare alle elezioni (a breve risuccederà con Cristina Fernández, stay tuned) ha portato a Brasilia il fascista Bolsonaro, e che ha visto poche settimane fa la morte di una persona cristallina come l’ex-ministro degli esteri argentino Héctor Timerman, al quale il governo Macri ha impedito finanche cure adeguate. I dettagli di questa morte imperdonabile vi sono stati risparmiati dai giornali. Tutti corrotti sta sinistra, signora mia? E tutti violenti, ovviamente.
Chi scrive ha per anni denunciato la violenza dilagante in Venezuela, le responsabilità repressive del governo, in un Continente dove, dai Mapuche del Sud del Cile giù giù fino ai migranti del muro di Trump, i diritti umani sono violati in tutti i modi possibili. E perciò è necessario ricordare che fin dall’inizio l’opposizione venezuelana (spesso senza scrupolo alcuno) ha scommesso sul sangue come elemento di destabilizzazione, giocando sulla morte sia dei suoi (spesso bianchi e di “buona famiglia”, quindi di valore) che del popolo chavista (spesso neri e poveri, quindi insignificanti). Nonostante ciò ricordo che centinaia di assassinii politici (per lo più sindacali) e violazioni dei diritti umani vi sono nella shining Colombia che fu di Uribe e Santos e oggi di Duque, in una continuità dell’orrore che non è meno tale perché, per ogni mille parole scritte da Repubblica sul Venezuela, non vi è una sola sillaba su quanto accade nell’altra metà di quella che fu la Gran Colombia.
Tutto è funzionale. Ieri un dirigente delle destre spagnole, Albert Rivera, ha fatto giornata sui social condividendo immagini di una manifestazione del 2002 rappresentandola come fosse “in diretta da Caracas”. È perfino stucchevole dover ricordare che una cosa è la realtà e altra “fare come se”. Non è per parlar d’altro; è per mero senso delle proporzioni, se qualcuno è pronto perfino a giustificare un’invasione militare del Venezuela, cosa si sarebbe dovuto fare nel Messico di Calderón e Peña Nieto con 400.000 morti e desaparecidos? Se i 43 di Ayotzinapa li avesse uccisi la polizia venezuelana?
Il fatto è che oggi non conviene a nessuno stare con il Socialismo del XXI secolo. Da quel dì non c’è più (lo dico dalla posizione di chi non lo ha mai difeso e men che meno militato) un campo socialista né un dibattito politico-intellettuale che permetta di difendere alternative al migliore dei mondi possibili (una volta c’era Porto Alegre in alternativa a Davos, oggi mi contenterei dell’Ulivo mondiale) che è la perpetuazione del modello economico vigente che – quasi ovunque secondo i dati CEPAL e non solo nel caotico Venezuela – vede povertà e indigenza galoppare verso i numeri orribili che avevano a inizio secolo prima che quei matti di Chávez, Evo, Lula eccetera, si mettessero in testa l’eresia di redistribuire un po’ delle immense ricchezze di questo Continente.
In breve: nessuno ha una convenienza intellettuale, pubblicistica, economica, di carriera a difendere Maduro. Anzi, tra difendere i presunti corrotti del lawfare e i presunti violatori di diritti umani (veri, presunti o in sedicesimo) della sinistra mondiale, anche chi come chi scrive, che allo studio delle violazioni delle violazioni di diritti umani ha dedicato buona parte della vita, viene fatto passare per un torturatore baffuto con il filo elettrico della picana in mano. Date retta, difendere Chávez non fa fare bella figura e non fa scrivere editoriali ben pagati su “La Stampa”. Eppure…
IL GOLPE TRUMP-BOLSONARO Molti stimati intellettuali si appassionano assai se sia nato prima l’uovo o la gallina in Venezuela, in particolare in riferimento alle responsabilità dell’Assemblea Nazionale, all’opposizione e quella Costituente, governativa. È evidente che in un sistema presidenziale quando il legislativo vuole cancellare l’esecutivo stia andando oltre i propri compiti, e che, quando la Costituente vuole legislare stia forzando i termini. Il dramma è che entrambe le assemblee rappresentano le due metà di un paese polarizzato forzando i termini costituzionali. In una democrazia funzionante le due metà stanno nella stessa aula a discutere. In una democrazia in crisi, dove entrambi hanno una parte di ragione e una di torto, stanno in due aule separate che non si riconoscono a vicenda.
Ora se la posizione del governo è chiara, non vuole andarsene, due parole vanno spese sull’opposizione che in questi anni ha sostenuto tutto e il contrario di tutto. Vuole votare; poi non vuole più votare. Se si vota è un golpe; poi se non si vota è un golpe. Siamo l’opposizione democratica, ma il golpe se ci riesce lo facciamo, perché mica ci fa schifo (è già il secondo). Ci sono i brogli, ma se vinciamo invece è tutto regolare. Boicottiamo le elezioni (random, ora sì, domani no, dopodomani vedremo), ma le boicottano solo X e Y, perché a Z (tutti autorevoli oppositori ai quali la stampa internazionale attribuisce stimmate derechohumaniste) invece conviene partecipare e allora mezza opposizione boicotta il boicottaggio, che tanto i giornali daranno sempre la colpa a Maduro, e così seguendo.
E poi c’è il dialogo. Non tutti sanno che per almeno un paio d’anni un prestigioso leader internazionale, l’ex inquilino della Moncloa José Luís Rodriguez Zapatero, ha portato la croce ed è anche riuscito a raggiungere un accordo pieno tra governo e opposizione. Un miracolo. Al momento di firmare l’opposizione ha però fatto saltare il tavolo, soprattutto perché i suoi troppi galli, dai nazisti ai socialdemocratici, preferiscono fare a coltellate tra loro e sognare (come nell’Argentina post-55) che da un giorno all’altro il chavismo semplicemente si dissolva, scompaia e con esso quel popolaccio che si ostina a sentirsene rappresentato, e il paese che considerano di loro proprietà sia loro restituito. Il problema principale dell’opposizione è proprio questo, tornare al minuetto della IV Repubblica con una finta alternanza concordata, e senza un’opposizione classista combattiva qual è il chavismo.
La questione è che dalla crisi venezuelana si esce in due modi. Il primo è tagliare con la spada il nodo gordiano, cancellando il popolo chavista dalla faccia della terra, con una guerra se necessario; il secondo insistendo col dialogo. Riducendo ai protagonisti, in queste ore stiamo vedendo che per la spada sono l’OEA di Almagro, Trump, Macri, Bolsonaro e una serie di medie potenze latinoamericane, tutte governate dalla destra.
Per il dialogo è López Obrador (e scusate se il Messico torni a esercitare un suo ruolo nella politica regionale dopo un quarto di secolo di afonia), ovviamente Evo Morales, Tabaré Vázquez (non è secondario), l’ONU, la Cina e, pare di capire, che la Spagna stia portando su queste posizioni l’UE. Tabaré non è secondario perché il Frente Amplio che governa a Montevideo ha appena espulso all’unanimità Luís Almagro (era stato ministro degli Esteri del Pepe Mujíca) prima di andare all’OEA, proprio per essersi messo a capo del partito della guerra contro il Venezuela torcendo, ai fini degli interessi statunitensi, la carta democratica della OEA stessa. È da segretario OEA delegittimato dal paese che lo aveva indicato che Almagro ha tirato fuori dal cilindro la carta Guaidó. La sua carriera in Uruguay è finita, la poltrona OEA fa gola a spalle più larghe delle sue, gli resta solo lo scalpo di Maduro. Occhio: il diritto qui importa fino a un certo punto. La messa in scena è riconosciuta come reale dagli USA e dal Brasile e quindi diventa affare serissimo.
La nomina di un antipapa ghibellino (cioè nominato dall’imperatore), quale appare essere il giovanotto Juan Guaidó, ci riporta così non alla stagione delle dittature civico-militari degli anni Settanta ma direttamente al medioevo. Fuor di metafora in ballo, e mi avvio a conclusione, vi sono due questioni fondamentali. Una è di lungo periodo e ci interroga tutti. Di fronte alla crisi esiziale del chavismo e dopo le sconfitte che la sinistra ha riportato dal Cile in giù, chi e come deve rappresentare le classi popolari in questo Continente e nel mondo, posto che i regimi neoliberali, che complice l’ossessione dei media monopolisti, si stanno riprendendo pezzo per pezzo la Regione, non le rappresentano affatto (anche se dei proletari votano destra)? Chi e come deve rappresentare le istanze di giustizia sociale, del lavoro malpagato di donne e giovani che è la principale carenza del Continente, dei diritti allo studio e alla salute e ancor prima all’acqua potabile e alla casa? Con Guaidó e Bolsonaro no di certo. Con i soldi del petrolio Chávez raggiunse risultati ammirevoli ma dai piedi d’argilla, nell’impossibilità di modificare i nodi strutturali del sottosviluppo. Ma anche vi fossero altri mille fallimenti, e checché ne pensi la sinistra borghese, la causa popolare resta la più importante e urgente delle cause.
Ultimo punto, ma non meno importante. Il concerto latinoamericano identificato con una generazione di leader finora senza ricambio, aveva posto al mondo il problema dell’esistenza dell’America latina come soggetto unitario, politico, culturale, ovviamente economico. I risultati in termini di integrazione politica ed economica e risoluzione dei conflitti, si pensi al processo di pace in Colombia, al reinserimento di Cuba, alla sconfitta dell’ALCA di Bush, furono straordinari ma temo effimeri. Ogni singolo governo di destra insediatosi in America Latina, quello Bolsonaro in maniera particolarmente forte, in questi anni ha fatto atto di sottomissione alla Casa Bianca smantellando un pezzo di istituzioni regionali che avevano permesso all’America latina di agire e rappresentarsi come blocco.
L’integrazione regionale non è cioè divenuta politica di Stato, ma è e sarà soggetta al colore politico di chi governa. Un disastro. Chi scrive, mi si consenta, afferma da sempre che europeismo e latinoamericanismo vadano sotto braccio. I motivi per i quali essere latinoamericanisti sono coincidenti con quelli per i quali essere europeisti e non si può essere tali (almeno per chi ha deciso di giocarsi la vita per questo Continente) senza essere anche latinoamericanisti. Per quanto si possa essere critici del governo Maduro, il burattino Guaidó, nelle mani del burattino/burattinaio Almagro, nelle mani del burattinaio Trump (ma l’anima nera è Mike Pence), sono la più triste, lugubre immagine del XXI secolo in America Latina.