Doina Matei, la zingara rapitrice e le altre

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Il clamore forcaiolo del caso della semilibertà a Doina Matei m’induce a ripubblicare (per la prima volta online) un capitolo di un mio libro del 2009, Storia critica dell’informazione al tempo di Internet, Nuovi mondi. Oggi come allora, all’alba dell’era social network, le rappresentazioni che poi vengono rideclinate nel peggiore dei modi sui Social da un’opinione pubblica spesso ripugnante, nascono sempre -e mai ingenuamente- dal mainstream.

Il caso dei cittadini immigrati è stato fin dall’inizio del fenomeno migratorio paradigmatico. Da anni si assiste alla non ingenua rappresentazione del fenomeno come una mera questione di ordine pubblico in un gioco pericoloso dove si costruisce a fini di consenso politico l’idea di una presunta “colpa collettiva” di una parte della società italiana, quella di provenienza extracomunitaria, descritta come naturalmente portata a delinquere, abusiva e portatrice di disvalori e problemi. Non sorprende che l’opinione pubblica italiana si mostri un terreno così fertile alla semina di pregiudizi contro intere comunità già che, fin dall’Unità, l’Italia è stata dominata da una diffusa pubblicistica espressione di un pregiudizio antimeridionale fattosi paradigma interpretativo della realtà del paese.

Così per pigrizia, convenienza, scarsa professionalità o aperta connivenza con ideologie e partiti xenofobi, vi è l’utilizzo senza scrupoli da parte dei media di leggende metropolitane diffamatorie nei confronti dei migranti, indimostrate quando non completamente false, eppure, se diffuse a piene mani dai media, dure a morire e istigatrici in maniera subdola di odio razziale. Tra queste vi è quella che gli immigrati commettano stupri su donne italiane in misura maggiore rispetto agli uomini italiani, oppure che ubriachi e drogati stranieri alla guida investano cittadini italiani in misura maggiore di quanto non facciano questi ultimi, oppure che i migranti ricevano dai servizi sociali italiani più di quanto versino[1].

Così gli spettatori (fruitori passivi) dei media mainstream, per esempio, non sono informati sul fatto che la Caritas (un’associazione sovversiva facente capo alla Conferenza Episcopale Italiana, la CEI) pubblichi studi che documentano che in Italia (un paese dove circa il 6% della popolazione è immigrata) i crimini commessi dagli stranieri sono pienamente sotto controllo o che la stragrande maggioranza dei casi di violenza sessuale avvengano in ambito familiare e quindi solo una minoranza, sulla quale però viene convogliata un’enorme quota di allarme sociale, è commesso da stranieri. I media però inducono a credere l’opposto, gestendo, inventando, strumentalizzando, a fini sia politici che commerciali, l’allarme sociale che essi stessi creano. Non solo: negli ultimi 20 anni i media per quanto concerne i migranti ribaltano il canone tradizionale della “notiziabilità” per il quale non è il cane che morde l’uomo ma l’uomo che morde il cane a meritare un titolo. Se fosse vero che gli immigrati delinquono normalmente, stuprano donne italiane abitualmente, guidano drogati e ubriachi comunemente uccidendo italiani, allora l’evento notiziabile, lo rileva Anna Maffei nel testo citato, dovrebbe essere quello dell’italiano che commette reati sugli immigrati, evento che invece, non essendo funzionale a tener desto l’allarme sociale, viene metodicamente ignorato. Non è difficile fare esempi che confermino le tesi di Maffei.

All’imprenditore di Gallarate che il 14 marzo 2000 si recò a casa di un suo dipendente, l’ingegnere rumeno Jon Cazacu, lo cosparse di benzina e gli diede fuoco uccidendolo, non mancò mai uno sguardo riduzionista della stampa, che seguì marginalmente il processo e non si indignò per il dimezzamento in appello della pena, né per la solidarietà attiva da parte della Lega Nord nei confronti del brutale assassino. Anche Andrea Cosmin era rumeno. Aveva 28 anni e faceva il camionista. Nel giugno del 2008 fu drogato e poi bruciato, simulando un incidente, dai propri datori di lavoro, una coppia veronese, per intascare l’assicurazione. Un omicidio così efferato fu pressoché ignorato dai media.

Ben diversa fu l’attenzione per il caso della morte di Vanessa Russo, una ragazza uccisa in metropolitana a Roma il 26 aprile 2007 da un’immigrata romena con un colpo di ombrello che, in una banale lite, si conficcò nell’occhio della ragazza. Nonostante la gravità del caso, conclusosi con la morte della cittadina italiana, fu presto processualmente evidente la preterintenzionalità del gesto. Le due donne non si conoscevano e l’arma del delitto non è normalmente destinata a offendere e quindi l’assassina, Doina Matei, fu condannata a 16 anni per omicidio preterintenzionale. Eppure fu immediatamente montata una campagna mediatica che creò un clima di odio e di tale allarme sociale anti-immigrati per la quale il giorno dei funerali venne zittito perfino il prete sull’altare per avere osato parlare di perdono.

Pochi giorni dopo però, nel nolano, il cittadino italiano Alessandro Riccardi, dopo una banale discussione, si recò a casa di immigrati polacchi con una pistola (strumento notoriamente atto a proteggersi dalla pioggia), fece fuoco e uccise Karolina, una bimba di cinque anni. Come rilevò anche Giovanni Maria Bellu, fin dal primo lancio di agenzia[2] l’infanticidio –nonostante il colpevole fosse stato ragionevolmente incriminato per omicidio volontario- fu immediatamente derubricato dai media come “accidentale” e l’uccisione di una bambina sparì subito dai giornali senza creare alcun tipo di allarme sociale, senza alcuna puntata di “Porta a Porta” e senza che il processo all’assassino fosse in alcun modo seguito dai media tanto che a chi scrive è stato impossibile trovare traccia nei media di una eventuale condanna o assoluzione dell’imputato.

Se un italiano spara contro una bambina polacca non può non essere “per errore”, come immediatamente titolò “La Repubblica” online il 5 maggio 2007, mentre se una cittadina romena colpisce con un ombrello un’italiana a monte c’è senz’altro una pervicace volontà omicida.

Tra tutti il pregiudizio più persistente è quello dei presunti rapimenti di bambini da parte dei Rom. Un media partecipativo facente capo alla Fondazione “Migrantes” legata alla Conferenza Episcopale Italiana, realizzò, in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia e Antropologia culturale dell’Università degli Studi di Verona, uno studio che fece luce definitiva e smantellò completamente il pregiudizio della zingara rapitrice[3]: in Italia nessun Rom è mai stato condannato per sequestro di minore[4]. Chi sostiene che così non sia, in buona o mala fede, sbaglia come ha sbagliato negli ultimi 65 anni chi ha sostenuto di aver visto nella Roma occupata i manifesti che intimavano ai partigiani autori dell’imboscata di Via Rasella di consegnarsi per evitare la rappresaglia delle Fosse Ardeatine[5]. Non solo tale studio è stato quasi completamente ignorato dai media ma contro gli zingari si continua a usare tale menzogna esattamente nelle forme studiate da Marc Bloch nel lontano 1921 in La guerra e le false notizie[6]. Siamo disposti a credere (nessuno è esente) tutto quello che ci rende chiaro un quadro secondo la nostra visione di mondo. Gli zingari, o i musulmani, o i politici, o i magistrati sono sempre colpevoli oppure sono sempre calunniati. I carabinieri (o gli Stati Uniti), secondo da dove si guarda, hanno sempre torto o sempre ragione.

I mezzi di comunicazione di massa, e di conseguenza il loro pubblico, mettendo ogni cosa al proprio posto in una rappresentazione schematica di ordine sociale, semplificano la realtà e rivendicano che solo una rappresentazione facilitata e omologata a un presunto comune sentire del luogo comune possa essere compresa dal grande pubblico. Sono così disposti a credere e a far credere che sia nella natura degli zingari il rapire i bambini. Rivendicano così un presunto diritto a ignorare studi come La zingara rapitrice o danno a questo un peso marginale rispetto a quello che attribuiscono alla vulgata che va nel senso delle loro credenze fino a pretendere di ribaltare l’onere della prova: sei tu, lettore critico, a dover dimostrare che gli zingari non rapiscono i bambini, non loro a dover citare un solo caso di condanna passata in giudicato. E la rappresentazione collettiva si tiene proprio rivendicando il diritto all’ignoranza e al luogo comune: «non sappiamo dirti quale zingaro abbia rapito un bambino e se è stato condannato per questo, ma siccome tutti abbiamo sentito dire che gli zingari rapiscono i bambini, deve essere vero».

[1] In tutti i casi esposti è vero il contrario. Per esempio i migranti, più giovani, sani e produttivi, contribuiscono con 3.8 miliardi di Euro ricevendo in cambio servizi per appena 1.1 miliardi. Su queste leggende xenofobe fanno luce studi come i rapporti statistici sull’immigrazione della Caritas, Cfr. http://www.caritasitaliana.it.

[2] http://www.repubblica.it/2005/b/rubriche/glialtrinoi/karolina/karolina.html. Bellu, all’epoca a “La Repubblica”, oggi a “L’Unità”, accusa le agenzie. In realtà come rilevò chi scrive (https://www.gennarocarotenuto.it/1098-italiano-uccide-per-errore-bimba-polacca-da-jon-cazacu-a-karolina-linformazione-razzista/) proprio il quotidiano romano sposò immediatamente la tesi della casualità dell’assassinio. Per una ricostruzione più equanime dei fatti cfr. A. Tarquini, Si «vendica» dopo una lite al bar: ma uccide una bimba, “L’Unità”, 6 maggio 2007.

[3] S. Tosi Gambrini, La zingara rapitrice, Roma, Fondazione Migrantes, 2008.

[4] A meno di non considerare il caso tuttora in corso di A. V., una minore Rom in stato di abbandono, condannata in primo grado nel gennaio 2009 a Napoli.

[5] A. Portelli, L’ordine è già stato eseguito. Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli, 1999.

[6] M. Bloch, op. cit.