Ho chiuso il mio account Facebook in dissenso con le reazioni a un mio post di un paio di giorni fa, in merito a un servizio del TG3 sulla scuola. Un docente vi si lamentava di non essere più capace di insegnare la disciplina per la quale aveva ottenuto la cattedra e di volerne insegnare un’altra, va da sé vicino casa. Pur essendo solidale con gli insegnanti, non penso che questi abbiano sempre ragione e ritengo che tali rappresentazioni siano controproducenti per la causa della scuola pubblica. E lo scrivo.
Right or wrong… dopo i soliti commenti, positivi o negativi, ma pacati come ho sempre preteso che fossero quelli nella mia bacheca, arrivano, a ondate un po’ sospette, risposte per nulla costruttive, volte non ad argomentare (al massimo si parla di disinformazione) ma a negare il mio diritto di critica: devi stare zitto. Nel frattempo, in privato, alcune combattive signore cercano di impormi per ore loro monologhi ai limiti dello stalking.
Lascio sfogare, mi dico. Passa oltre un giorno e mezzo, un tempo giurassico in Facebook e tutto sembra finito. Improvvisamente, nel giro di minuti, la bacheca si riempie di decine di commenti di perfetti sconosciuti, evidentemente cammellati, tutti insegnanti: offese personali, insulti a chi si era detto d’accordo con me, auguri di morire in miseria (sic), chi mi dà tout court del fascista, puerili insinuazioni diffamatorie sul mio lavoro universitario, con il mio post che proverebbe la malafede di tutta la mia vita professionale. Il tutto senza che nessuno si sognasse di offrire alcun argomento che non fosse la mera difesa corporativa della categoria, e palesandosi nella forma di un attacco collettivo, sguaiato e pregiudiziale, verso una persona ai più perfettamente sconosciuta. Bullismo virtuale, in genere associato agli adolescenti, ma qui esercitato da un “branco” di educatori ultra-quarantenni.
Tra i tanti si palesa anche lui, il presunto intervistato del TG3 (io non avevo personalizzato). Lascia un commento di svariate migliaia di caratteri che in pochi minuti raccoglie una claque di decine di like, insolito per un post ormai digerito da FB se non con una gazzarra organizzata, oltre a commenti entusiasti e una rinnovata e ancor più pesante salva di insulti per chi scrive.
Dal commento dell’eroico insegnante paradossalmente si conferma quanto affermato al TG3: è vero, in gioventù mi occupavo di X e ho fatto domanda, ma adesso che sono cresciuto preferisco Y. Comunque – qui smentendo il servizio strappalacrime- non partirò e non partirà quasi nessuno. Ovvero: hai fatto domanda, ti hanno dato una cattedra, la stessa istituzione ti offre un’opportunità di non accettare e continuare a lavorare dove vuoi, ma preferisci occultarlo rappresentando te e i tuoi sul cancello di Auschwitz.
Il testo infatti si chiude con la decontestualizzazione della celeberrima citazione del pastore Niemöller, che il nostro attribuisce a Brecht. E lì la strumentalizzazione è ancor più stucchevole e palese. Dopo gli zingari e gli ebrei sono venuti a prendere gli insegnanti? Chi? Il Ministro Giannini? Del resto l’immagine di copertina del nostro recita stentorea: “DEPORTAZIONE”. L’ha pubblicata il giorno della memoria e non l’ha più cambiata? Macché, lui e i suoi amici considerano se stessi “deportati”. Anche se perfino l’ANED se n’è lamentata, facendo notare la gravità della banalizzazione del termine inequivocabilmente associato alla Shoah, a loro piace e, nelle loro reti, è tutto un deportato, deportati, deportazione.
Tra Brecht e la deportazione non si rendono conto di perdere completamente il senso delle cose, scadendo in un uso pubblico della storia maldestro e volgare, tanto più grave in quanto operato da un gruppo di insegnanti in una comparazione falsa, strumentale, irriflessiva e irresponsabile.
Cosa racconteranno ai loro studenti della scuola di Biella o Belluno dove [non] andranno a insegnare? Che sono arrivati in vagoni piombati? Che assegnare cattedre a qualche migliaio di insegnanti è comparabile alla Shoah e chi osa dubitare è fascista? Le parole sono importanti diceva quello… e l’episodio darebbe per una riflessione esemplare sull’uso sempre più identitario della comunicazione: non già per spiegare a terzi le proprie ragioni ma per stringersi a coorte e attaccare chiunque le metta in discussione. E’ una chiusura mentale rancorosa con la quale, al di fuori del loro circolo, non otterranno che incomprensione, repulsione e ridicolo.