Perugia, #IJF13, le domande che non potrò fare a Yoani Sánchez

aznar-yoani--644x362No, non ho alcuna intenzione di boicottare il Festival Internazionale del Giornalismo, come da più parti mi chiedono anche con modi bruschi, per la presenza di Yoani Sánchez (nella foto con José María Aznar). I motivi sono due: ho in programma domenica un panel che considero forse il più significativo da quando partecipo con piacere e interesse alla rassegna perugina organizzata da Arianna Ciccone; non mi sognerei neanche di pensare –ed è dirimente- che sia desiderabile impedire di parlare a Yoani, pur riservandomi il diritto di criticarla per i motivi che espliciterò in questo articolo.

Il panel che propongo quest’anno a Perugia, ragionato fin dall’autunno scorso e che mi sta particolarmente a cuore, mi vedrà confrontare con due specialisti in diritto dell’informazione, Elda Brogi e Giulio Vigevani. Con loro (loro da giuristi, io da blogger e studioso della storia del giornalismo) parleremo di come da anni i politici, i disinformatori mainstream, i potenti in genere, tengono un fucile a canne mozze puntato sul giornalismo partecipativo, noi blogger, con cause pretestuose per fantasiose e presunte diffamazioni, con richieste di risarcimento a volte milionarie (ma anche qualche migliaio di Euro può bastare) che sono in grado di spezzare la schiena al più motivato di noi. Lo faremo in forma laboratoriale, partendo da esempi e domande concrete. Vi aspettiamo.

Considero l’IJF una rassegna preziosa, dove molte persone possono incontrarsi, formarsi, discutere. Certo, la “farandula” dei big anche nella rassegna perugina è a volte opprimente, pensate al teatrino tutto verticale e senza possibilità di contraddittorio offerto da Gianni Riotta lo scorso anno. Purtroppo considero ciò parte delle regole dell’infotainment che non permetterebbe agli organizzatori di avere le risorse per invitare centinaia d’informatori spesso anonimi per il pubblico italiano. La parte dell’autocelebrazione del mainstream esiste a Perugia ma è una parte minoritaria del tutto che serve soprattutto a costruire l’evento mediatico. La forza del Festival Internazionale del Giornalismo contribuisce a far capire alle migliaia di persone che girano per le decine di singoli eventi perugini che sotto la semplificazione del gran giornalismo di regime (quello stesso che oggi vuole farci piacere il governo Letta/Gasparri, #resistenza!) esiste una complessità ben più ampia del mondo dell’informazione. È una complessità soprattutto digitale, che chi scrive, modestamente, cerca di spiegare da anni ai propri studenti dell’Università di Macerata e della Bocconi di Milano. È così che a Perugia sono arrivati -tra i tanti- Hollman Morris dalla Colombia o Anabel Hernández dal Messico, con la quale ebbi l’onore due anni fa di condividere il tavolo in un evento coordinato da Cecilia Rinaldini.

Lo scorso anno, subito prima di Riotta, Gianni Minà ed io, riempimmo lo stesso teatro del Pavone, dove poco dopo si sarebbe pavoneggiato colui che definì se stesso “la luce” e il giornalismo partecipativo “le tenebre”. Quando proposi ad Arianna Ciccone il format dell’intervista a un grande e popolare giornalista come Gianni Minà, ai primi posti delle liste nere del neo-maccartismo mediatico italiano (che va ben oltre gli editti bulgari berlusconiani ed è anzi ben più presente nel giornalismo pseudo-progre) sapendo che io stesso sono inserito in alcune di quelle liste nere, la vidi titubare solo un attimo. «Sono rogne» deve aver legittimamente pensato. Poi si sciolse in un sorriso solare: «si fa». E si fece. In quel prezioso scrigno in pieno Corso Vannucci, avemmo, certificato dal tutto esaurito, la possibilità di parlare esattamente allo stesso numero di persone che avrebbero subito dopo seguito la star del mainstream. Par condicio, se vi par poco, grazie all’IJF.

È questo che mi fa considerare l’IJF un valore da difendere per studenti, blogger, precari, che travalica la critica al singolo ospite. Pochi giorni fa alla Radio Svizzera avrei dovuto dibattere con Moises Naím, il principe nero dei disinformatori antilatinoamericani (amicone di Riotta, per capirci, e con praterie di spazi in Italia dall’Espresso al Sole). Ero raggiante per l’opportunità che attendevo da anni. Mi considero vittima collaterale delle bombe di Boston che, all’ultimo istante, ribaltarono l’agenda informativa e annullarono il previsto dibattito sul Venezuela quella mattina. Tutto annullato. Pagherei per dibattere con Moises Naím, pagherei per dibattere con Yoani Sánchez, non ho più tempo da perdere per i loro mediocri emuli italiani, i Ciai, i Cavallini, i Cotroneo. Il loro mondo è organizzato all’interno di un sistema gerarchico a tenuta stagna nel quale si sale solo garantendo gli interessi dominanti. Altrimenti no way. È per quello che, con tutti i difetti, il mondo dell’università e della ricerca resta anni luce avanti a quello dei media. Qui le idee restano questionabili, discutibili. Nei media mainstream la battaglia delle idee è un simulacro costruito secondo logiche completamente interne al modello dominante. Stanti così le cose perché mai l’IJF non dovrebbe riconoscere a Yoani il ruolo di opinion leader mondiale a lei assegnato dal mainstream e non stendere il tappeto rosso per invitarla? È l’IJF a doversi porre il problema dell’opacità della costruzione di tale leadership? Non credo.

Il tour mondiale di Yoani è organizzato secondo i canoni mainstream, un unico evento mediatico di propaganda, un format chiuso dove nessun contraddittorio è possibile, il che è bizzarro per chi proviene da un paese dove non c’è libertà di stampa. Non m’interessano –anzi rifiuto con forza- le azioni di ripudio, forma stantia di protesta, che fanno solo piacere alla Sánchez. Considero non dirimente, anche se è difficile non coglierne la contraddizione che mina la credibilità di una “dissidente”, il fatto che Yoani sia un brand di straordinario successo economico capace di farle guadagnare centinaia di migliaia di dollari (quasi 10.000 al mese, mi risulta, dalla SIP, la padronale della stampa latinoamericana di destra, e da El País di Madrid, senza contare le donazioni e altre prebende) in un paese dove un chirurgo di livello mondiale ne guadagna poche decine al mese. Fatti suoi.

M’interesserebbe di più discutere della detta costruzione di un’opinion leader mondiale come Yoani. Troppi passaggi portano a pensare che questa sia supportata fin dall’inizio da agenzie statunitensi quali Freedom House o il National Endowment for Democracy, dal più importante gruppo mediatico spagnolo, il Grupo Prisa, che edita il quotidiano El País del quale Sánchez è corrispondente, con enormi interessi in America latina e lobbista ufficiale delle multinazionali iberiche nel continente, o i grandi gruppi mediatici privati della regione, tutti di destra e con una fedina penale macchiata dall’appoggio alle peggiori dittature della storia, da Pinochet a Videla. In questo senso, converrà il lettore, Yoani è una blogger molto peculiare, una anti-blogger o, meglio, una blogger mainstream ben lontana dall’immagine che dà di sé.

In questo senso vanno i miei dubbi principali sul caso Yoani. Il NED, Freedom House, ancora nel solco dell’ “esportazione della democrazia” di George Bush, che tanti disastri ha creato nel decennio passato, tendono a rappresentare mediaticamente paesi lontani da chi legge, come realtà dicotomiche dove l’esistente è da spazzar via a qualunque costo e deve essere sostituito con una pedissequa riproposizione del modello di democrazia propugnato dal neoconservatorismo. Appena 10 giorni fa abbiamo vissuto un tentativo di destabilizzazione del Venezuela costato una decina di morti e operato con tecniche note. Non è forse Henrique Capriles, bianco, giovane e belloccio una versione maschile di Yoani Sánchez, da contrapporre ai trinariciuti lumpen bolivariani? Spurgata da questa riflessione, per la quale evidentemente ci sono molti modi d’intendere la democrazia, qual è la vera faccia di Yoani Sánchez? Va bene per tutti, compresi i progressisti europei, rappresentando un simbolo di libertà e democrazia? O non è piuttosto espressione di una forma specifica di democrazia rappresentativa, non necessariamente desiderabile per un’ampia parte dell’opinione pubblica?

M’interesserebbe allora molto porgere a Yoani domande su questioni delle quali mi risulta che non parli mai. La Rivoluzione cubana è sopravvissuta per un quarto di secolo alla caduta del socialismo reale. Non ci sono delle ragioni endogene nella persistenza di quel modello? A Cuba tutto sta cambiando rapidamente, con il grande ruolo svolto dall’America latina integrazionista, dal Brasile, dal Venezuela, ma questo non sembra soddisfare mai né lei né gli Stati Uniti mentre tutto il resto del mondo ha da tempo normalizzato le relazioni con l’isola. Per lei Cuba dovrà essere un pezzo della Patria Grande latinoamericana che si sta costruendo o l’ultimo avamposto occidentale in una nuova guerra fredda contro il grande continente progressista?

Perché Yoani contribuisce alla costruzione di una rappresentazione falsa d’immobilità dell’isola che è la rappresentazione di chi preconizza un’uscita dalla rivoluzione attraverso una guerra civile o un intervento militare straniero per riportare a Cuba la democrazia (neo)liberale o di quello delle riforme? Quale Cuba vuole domani un’opinion leader come Yoani? Vuole la Cuba che sognano i revanscisti di Miami e il partito repubblicano statunitense riportando indietro l’orologio di mezzo secolo o vuole un’altra Cuba possibile come parte viva dell’America latina?

La blogger con l’immagine di donna fragile ma capace di tenere testa ad un regime tirannico con la forza dei suoi tweet è conciliabile con quella che due settimane fa a Miami ha stretto la mano all’assassino materiale di Ernesto Che Guevara (un prigioniero ferito, legato, inerme)? È andata per errore la settimana scorsa in Argentina, dove è stata la stella di una lugubre parata di estremisti di destra, golpisti, revanscisti neoliberali, reduci del bushismo più rancido (mancavano per ragioni di età solo Stefano delle Chiaie e Licio Gelli), o è quello il suo ambiente politico di riferimento? Yoani Sánchez è una sincera democratica o è espressione dell’estrema destra latinoamericana che ha spesso usato il terrorismo, il golpismo, la manipolazione mediatica e la violazione dei diritti umani come strumento per raggiungere i propri scopi politici?

Anche volendo concedere a Yoani il beneficio del dubbio, il titolo scelto per il suo libro e per l’iniziativa di Perugia “in attesa della primavera” ha degli aspetti di ambiguità preoccupanti. La primavera che si aspetta è quella di Praga, del sogno di riformare e liberalizzare il socialismo reale? O la primavera che si aspetta Yoani è quella delle primavere arabe, usate e gettate dall’Occidente, o ancora quella delle rivoluzioni colorate, finanziate dal NED e dalla CIA, per sostituire governi sgraditi agli USA con regimi amici ma quasi mai più democratici?