Oggi in Messico s’incoronerà in Enrique Peña Nieto il ritorno dell’eterno Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI) alla presidenza della Repubblica. Con ogni probabilità non basterà al candidato progressista Andrés Manuel López Obrador (foto di Gennaro Carotenuto a Ciudad Juárez), al quale la presidenza fu già strappata nel 2006, aver di nuovo catalizzato le speranze di milioni di lavoratori e studenti e aver impedito una nuova transizione concordata tra i due partiti conservatori (il PRI e il PAN) che vorrebbero tornare –come nel 2000- a mostrare al mondo un simulacro di democrazia dell’alternanza, invece inesistente.
Il terzo incomodo, Josefina Vázquez Mota, la candidata del PAN, candidata perdente designata a tale recita per gli occhi del mondo, dei media e della politica internazionale che preferisce non guardare al Messico come una delle maggiori testimonianze del fallimento del modello neoliberale, solo potrà certificare il fallimento di un’esperienza di governo conservatore durata 12 anni e conclusasi con il bagno di sangue di 50.000 morti, nella guerra al narco voluta dal presidente uscente Felipe Calderón.
Sarebbe bello sbagliare, ma anche oggi lo sforzo titanico del Messico civile di uscire da una "democrazia protetta", disegnata dal grande ossimoro di un partito che si pretendeva rivoluzionario e istituzionale allo stesso tempo, per motivazioni endogene (non tutte disdicevoli) tra le due guerre e rafforzata nell’ultimo quarto di secolo da cause esogene, in particolare la svolta neoliberale e il trattato di libero commercio del Nordamerica del 1994, sarà frustrato. Lo sarà forse per un pugno di voti, con o senza brogli che molti osservatori non ritengono necessari dopo anni di martellamento su Peña Nieto uomo della provvidenza, e il Messico civile tornerà a piangere sul latte versato di una democrazia incompiuta con voti comprati o costretti e con un sistema mediatico tutt’altro che pluralista.
In almeno un caso, quello del banco Monex, sono stati denunciati almeno 56 milioni di dollari pronti a essere versati su carte prepagate di cittadini in cambio dell’impegno a votare e far votare il PRI. Un meccanismo oliatissimo, che va dai quadri medi locali delle istituzioni e dei partiti agli scrutatori e sul quale, per il caso Monex, è calata la scure del segreto bancario, che nel Messico attuale rappresenta un valore superiore a quello della democraticità del voto.
Ma al di là delle technicalities con le quali stanno imponendo il delfino di Salinas de Gortari come presidente, soprattutto piangeremo sull’impossibilità di far emergere dal sottosviluppo civile un enorme lumpenproletariato che vive il proprio male di vivere tra emigrazione e sirene criminali del narco quasi come cultura alternativa (ma che innerva tutto il paese lasciandone intatto il classismo congenito) dove il successo è ancora nel sogno consumista nonostante un intorno sociale di sangue e macerie. È un lumpenproletariato che continua alieno dal continuo fiorire di movimenti sociali e democratici del paese che in questo, anche per elaborazione intellettuale, non è secondo a nessuno, l’FZLN dal Chiapas, all’APPO di Oaxaca, ad Atenco, alla grande mobilitazione contro i brogli del 2006, al recentissimo #Yosoy132 di questa campagna elettorale che ha mobilitato centinaia di migliaia di studenti.
Se l’America tutta è in movimento dalla base ai vertici e i passi avanti, sociali, politici, economici, sono quotidiani in quasi ogni angolo del Continente, il grande paese del Nord, più di cento milioni di abitanti a cerniera tra l’America latina e gli Stati Uniti, appare sommerso in un presente di sangue e di crisi sistemica che non fa (non deve fare) notizia e nel quale la politica non appare più uno strumento per cambiare l’esistente.
Enrique Peña Nieto (foto, l’ennesima immagine da Bob Kennedy costruita a tavolino e rielaborata in tutto il mondo da spin-doctor statunitensi ripetitivi e annoiati, trovate le differenze col suo clone Henrique Capriles Radonski, che sfida Hugo Chávez in Venezuela) è un simulacro di modernità coniugata al conservatorismo più spietato e al garantire gli interessi più nefasti tanto delle classi dirigenti locali come transnazionali in una continuità spaventosa col salinismo che nell’88 (eletto con clamorosi brogli) impose la svolta neoliberale al paese. Peña Nieto salì per la prima volta al disonore della cronaca quando, già governatore dello Stato del Messico (uno dei più importanti della federazione, a ridosso della capitale) a metà dello scorso decennio fece razziare la comunità di San Salvador Atenco rea di aver impedito di essere spazzata via dal business di un nuovo aeroporto internazionale. Quasi come una rappresaglia, in un conflitto appena successivo, si contarono più di quaranta donne stuprate dalla polizia che, secondo molteplici testimonianze, sarebbe stata incoraggiata in tal senso dal neo-governatore. Di sicuro questo, a sei anni di distanza, resta il primo garante dell’impunità per Atenco come di quelle relazioni di potere corporative e inestricabili che rendono il PRI un partito-stato unico al mondo che ha solo condiviso il potere con il PAN in questi dodici anni.
Un’anima di sicario quindi ma un volto televisivo, quello cercato in Peña Nieto dal PRI eterno, che aveva governato il paese per 70 anni, prima di passare la mano nel 2000 e presentarsi rinnovato solo nell’immagine oggi. Giovane (1966), belloccio, rampante, sposato con la stella delle telenovelas Angélica Rivera. È un dettaglio che è rivelatore dell’alleanza organica con il principale gruppo mediatico del paese, Televisa, sulla quale si sono versati fiumi d’inchiostro, ma che palesa una volta di più la storia di dittatura mediatica delle oligarchie latinoamericane che solo nei paesi integrazionisti, Venezuela, Bolivia, Brasile, Argentina, si è cominciato a intaccare con la nascita di media pubblici e la lotta a posizioni dominanti.
Finché intrattenimento e informazione in Messico saranno monopolio di Televisa (e del suo gemello Tv Azteca) non sarà possibile un’evoluzione democratica delle mentalità. Da anni, quotidianamente, goccia a goccia, Televisa costruisce senza contraddittorio la propria idea di modernità neoliberale, i propri valori oggi incarnati da Peña Nieto, e demolisce con l’infamia di una quotidiana calunnia la candidatura progressista di Andrés Manuel López Obrador, AMLO che, come sei anni fa, ha battuto palmo a palmo il grande paese a parlare di un altro Messico possibile venendo costantemente ignorato dai media ufficiali che preferivano disegnare una plebiscitaria cavalcata solitaria del candidato priista piuttosto che la sfida democratica tra due diverse idee di paese.
Per anni Televisa ha continuato a presentare AMLO come un pericoloso sovversivo in un Messico avviato verso la pace e la ricchezza della modernità neoliberale, oppure come un velleitario incapace di avvicinare nei sondaggi il principe ereditario, la figlia adolescente del quale apostrofa i critici del padre con un rivelatore: “sono solo dei proletari”. In un contesto così civilmente triste Peña Nieto si avvierà a trionfare e da domani cominceremo a riparlare di brogli, anche come succedaneo a spiegazioni più profonde e necessarie. Come nell’88, quando Cuauhtémoc Cárdenas fu privato di una vittoria sicura, come nel 2006 con AMLO, come sempre in questo Messico che fa male.