Perù, turiamoci il naso e votiamo Ollanta Humala

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Oggi si vota per il ballottaggio delle presidenziali in Perù, il vero allievo prediletto del Fondo Monetario Internazionale in questi anni, con crescita e profitti enormi e nessuna redistribuzione.

Si sfidano il fujimorismo, la dittatura fondomonetarista degli anni ‘90, rappresentata dalla figlia di Alberto, Keiko Fujimori, e il candidato inviso ai poteri forti, l’ex militare Ollanta Humala (foto), che ha ricevuto nelle ultime settimane l’appoggio, scomodo, del premio Nobel Mario Vargas Llosa.

Su Keiko il giudizio non può essere più chiaro. E’ una figura di nessuno spessore, una prestanome, non tanto del padre che pure libererebbe dal carcere dove sconta la sua pena a 25 anni per assassinio, violazioni dei diritti umani e corruzione, ma dei poteri forti facilissimi da identificare con un tuffo all’antico e con un elenco solo apparentemente stantio: multinazionali straniere, soprattutto del settore estrattivo e delle comunicazioni; élite peruviana che controlla il sistema mediatico più razzista del continente, ambasciata degli Stati Uniti.

Dall’altra parte c’è Ollanta Humala, l’ex-militare con qualche scheletro nell’armadio e un discorso pubblico con tratti autoritari e nazionalisti, che in questi anni ha saputo intercettare l’onda lunga della primavera latinoamericana e reinterpretarla alla peruviana e si presenta con un programma almeno socialdemocratico che stride con gli appoggi eccellenti ricevuti nelle ultime settimane, il tecnocrate Alejandro Toledo e il destrissimo Mario Vargas Llosa, nemico giurato di tutti i governi progressisti latinoamericani ma soprattutto di Alberto Fujimori che nel 1990 gli soffiò la presidenza della repubblica alla quale pareva destinato come candidato dell’ortodossia neoliberale.

Se dovesse vincere, la contesa si prevede tiratissima, Humala si allineerà con prudenza al concerto continentale, cercando nei governi di Dilma Rousseff e in quello di Hugo Chávez un’alternativa diplomatica per sganciare il Perù dall’asse filostatunitense che affaccia sul Pacifico (Messico, Colombia, Perù e Cile) e rafforzare i processi di integrazione latinoamericana. Per Washington lavorare per Keiko contro Ollanta appare un frammento di ‘scontro di civiltà’, ma sono in pochi a considerare con tanto pathos le elezioni di oggi.

La crisi peruviana, l’essenza del modello neoliberale con quell’economia rampante, una prosperità senza etica né giustizia sociale e una democrazia sempre più debole, passa dalla destrutturazione definitiva del sistema politico tradizionale, dall’APRA, alla democrazia cristiana alla sinistra che in queste elezioni sono state completamente marginali. Dal basso i minatori di Puno come gli indigeni dell’Amazzonia che difendono le loro foreste, si sforzano di dire che un altro Perù è possibile. Ma la loro voce arriva ancora troppo debole.