Banco del Sur, un passo decisivo per l’integrazione latinoamericana

banco_del_sur Domenica è stato fondato a Buenos Aires il Banco del Sur, Banco del Sud. Dopo un anno di negoziati, ne sono paesi fondatori il Brasile, l’Argentina, il Venezuela, l’Ecuador, la Bolivia, il Paraguay e l’Uruguay, che insieme raccolgono i tre quarti della popolazione del Sud America, 284 dei 375 milioni di abitanti. Restano fuori solo Cile, Perù e Colombia, i paesi della costa pacifica che ancora guardano a Washington. Lula da Silva, Hugo Chávez e Nestor Kirchner (che ha voluto far coincidere il raggiungimento di questo risultato con la conclusione del suo mandato presidenziale), sono i padri in quello che si profila come un passaggio decisivo verso l’integrazione latinoamericana.

Il Banco del Sur, che avrà come sede principale Caracas, fu proposto dal presidente venezuelano Hugo Chávez alla fine del 2004 (ne parlò a chi scrive in questa intervista) e fu accolto da

ll’ortodossia neoliberista e dai media mainstream con la solita irrisione: irrealizzabile, velleitario e con l’accusa peggiore: antiamericano. E’ improprio che il termine “antiamericano” sia usato come sinonimo di “ciò che va contro gli interessi degli Stati Uniti”. Il fondamentalismo neoliberale cominciò a preoccuparsene poco dopo, quando furono i governi argentino e soprattutto quello brasiliano (una delle prime dieci economie industriali e capitaliste) a farne un punto qualificante nei loro programmi di governo. I Chicago boys furono colti da panico quando all’inizio del 2006 tanto il Brasile come l’Argentina, anche per merito del credito venezuelano, restituirono tutti i loro debiti all’FMI: “da oggi –disse Lula da Silva- non abbiamo più bisogno dei vostri consigli interessati”.

Oggi il Banco del Sud è una realtà e dopo mezzo secolo i latinoamericani possono sbagliare da soli. E’ di gran lunga la sfida più importante tra quelle che i governi integrazionisti latinoamericani hanno intrapreso nel corso dell’ultimo decennio e soprattutto da quanto, nel dicembre 2001, con la carestia e il crollo dell’Argentina neoliberale, fu evidente il fallimento etico e materiale del sistema imposto all’America latina e al Sud del mondo dal Fondo Monetario Internazionale. Da allora l’FMI sopravvive a se stesso. Ha perduto l’80% del proprio portafoglio di debitori e non ha più strumenti per imporre la propria dottrina, quel fondamentalismo neoliberale che, a partire dalle dittature militari delle quali l’FMI fu complice, ha svenduto un continente e la vita di centinaia di milioni di persone con l’imposizione, né democratica né trasparente, della privatizzazione di servizi pubblici fondamentali, la svendita delle principali ricchezze a multinazionali straniere e la distruzione sistematica dello stato sociale e dei servizi essenziali.

A partire dal 2001 fu evidente (almeno a chiunque avesse occhi per vedere e fosse intellettualmente onesto), che il sistema nato a Bretton Woods alla fine della seconda guerra mondiale aveva semplicemente sostituito il colonialismo classico, quello delle cannoniere, con un colonialismo di nuovo conio, nel quale i paesi più ricchi, attraverso il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Mondiale, continuavano ad ingerirsi nelle economie del Sud del mondo, a condizionarle e ad appropriarsi delle ricchezze di queste per sostenere lo sviluppo del Nord. Lo hanno fatto con l’usura immorale del debito estero che, se ha piagato di povertà il Sud del mondo, ha coperto di un discredito forse irreparabile l’immagine del Nord che quel sistema usuraio ha per decenni imposto beneficiandone largamente.

Il Banco del Sud che nasce è una grande scommessa, con molte incognite. Non esiste certezza che in caso di crisi funzionerà davvero da prestatore di ultima istanza, oltre che da finanziatore di infrastrutture regionali. Non esiste certezza che non si creino disequilibri tra finanziatori e finanziati e che la relativa solvenza venezuelana non crei aspettative impossibili. Non esiste certezza che sia in grado di esigere la restituzione dei crediti e se non lo fosse non avrebbe vita lunga. Non esiste certezza che il Banco del Sur sia davvero uno strumento in grado di proporsi come vera alternativa creditizia all’FMI e alla Banca Mondiale. Non esiste certezza che sia il primo passo e che altri, come l’unità monetaria latinoamericana, seguano in tempi brevi per dare anche a mezzo miliardo di latinoamericani (dentro e fuori dal blocco attuale di governi integrazionisti) la possibilità di essere soggetto e non oggetto in un mondo multipolare.

Il Banco del Sur è il punto di inizio di una storia nuova. Nestor Kirchner, che ha chiuso il suo mandato con la nascita del Banco del Sur, ha ringraziato Hugo Chávez: “gli argentini sanno che eri lì ad aiutarci nel momento più difficile”. Rafael Correa, il presidente ecuadoriano ha affermato che per la prima volta i capitali latinoamericani troveranno conveniente restare ed ha esortato a misure che favoriscano davvero il rimpatrio di 250 miliardi di dollari in riserve che i governi latinoamericani mantengono nelle casseforti dei centri dell’economia mondiale. Sarebbe la fine del colonialismo mentale e una delle conseguenze più importanti della fine del “Consenso di Washington” e del recupero da parte dell’America latina di un’autonomia decisionale sull’economia della regione. Nei discorsi di ognuno dei presidenti è stata evidente la distanza oramai abissale verso l’FMI colpevole di quella che sempre Correa ha definito “la lunga notte del neoliberismo”. E Lula, al quale i media mainstream continuano ad attribuire falsi contrasti con Chávez, ha affermato una volta di più: “Non esiste una via d’uscita individuale. Dobbiamo risolvere le asimmetrie della regione e il Banco del Sud sarà decisivo per finanziare progetti chiave nell’economia, infrastrutture, scienze e tecnologia”. Si va avanti tutti insieme, ed è lo stesso sogno di Artigas, di Bolívar e di San Martín.