Il Bangladesh e la protezione civile

Bangladesh Gianni Rufini, sulle pagine di Lettera22, un sito (e ainda mais) amico e consigliabile come pochi, fa un interessantissimo punto della situazione sugli effetti del ciclone Sidr in Bangladesh e sulla accresciuta capacità di questo paese di prevenzione e protezione civile.

Forse è arbitrario come fa Rufini paragonare Sidr al ciclone del 1970 che fece 300.000 morti, e quello del 1991 che ne fece 138.000 per dedurre che il numero molto minore dei morti (meno di 10.000) sia principalmente dovuto alle migliori capacità di risposta del paese. Eppure è corretto ricordare che stiamo parlando di un paese pauperrimo dove decine di milioni di persone si accalcano su coste, fiumi e canali insicuri e continuamente esposti ai fenomeni meteorologici.

E in quel contesto, se ne parlava già in Geopolitica dello tsunami, un prezioso librino edito da Lettera22 stessa, emergevano le strategie messe in piedi anche da paesi poverissimi come il Bangladesh per migliorare la propria capacità di risposta alle catastrofi naturali. Non si tratta di iniziative costose e del resto nessuna Banca Mondiale le finanzierebbe, ma sono iniziative che salvano vite agendo sulla capacità di risposta della popolazione civile locale che è l’unica in grado di metterle in pratica visto che gli aiuti internazionali, per quanto generosi tardano ore o giorni e intervengono a macchia di leopardo, quando non si rivelano solo promesse.

E così in Bangladesh, si sono spostate, a volte di poche centinaia di metri, ma sufficienti a salvarne le vite, milioni di persone attraverso educazione della cittadinanza, coordinamento di gruppi di protezione civile e pubblica amministrazione oltre a misure strutturali, che vanno dalla creazione di sistemi di allarme alla creazione di riserve di acqua e cibo e rifugi. Ciò in uno dei paesi più poveri al mondo e con un incidenza dell’analfabetismo tra le più drammatiche al mondo superiore ai due terzi della popolazione. E’ un qualcosa che ricorda lo straordinario esempio (scomodo) della protezione civile di Cuba, un paese capace di spostare anche il 15% della popolazione in poche ore e di far tendere a zero le vittime di cicloni che altrimenti causerebbero migliaia di vittime, come puntualmente è successo dall’Honduras al vicino Tabasco, nel sud del Messico.

Chi scrive non è in grado (e sarebbe ideologico e arbitrario) di comparare la reazione alla catastrofe in Bangladesh e quella di Nuova Orleans negli Stati Uniti, la prima grande metropoli al mondo, tuttora in via di abbandono per l’assoluta incapacità del settore pubblico di quel paese di rispondere e garantire il diritto della popolazione a reinsediarsi. Ma è evidente che la permanenza del ruolo dello Stato, la capacità del settore pubblico di investire risorse, sia decisiva nel mitigare, in Bangladesh usano l’espressione Disaster mitigation, le conseguenze sulla popolazione delle catastrofi naturali. Ed è ancora più evidente che il ruolo dello Stato non può non essere preventivo, con strutture che vanno create, appoggiate, tenute in piedi, oliate, messe alla prova e tenute pronte, nonostante l’indebitamento strutturale di molti paesi e la vulgata che impone invece l’arretramento dello Stato. Che il Bangladesh possa insegnare qualcosa anche all’Italia?