Colombia-Venezuela: l’eredità avvelenata di Álvaro Uribe per Juan Manuel Santos

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NB: La vignetta è del settimanale britannico “The Economist” e rappresenta (correttamente al contrario della stampa italiana e di El País di Madrid) Uribe che tenta di impedire la stretta di mano tra Juan Manuel Santos e Hugo Chávez.

Ieri Álvaro Uribe ha lasciato la presidenza della Colombia millantando trionfi ma portandosi dietro una scia di sangue con pochi precedenti. Il paragone è con il peruviano Alberto Fujimori, poi condannato per corruzione e violazione dei diritti umani. Lascia avvelenando i pozzi del suo successore Juan Manuel Santos, bloccandone il tentativo di migliorare i rapporti con il Venezuela di Hugo Chávez che era deciso a presenziare alla cerimonia di passaggio dei poteri. Anche se per la stampa è sempre colpa di Chávez, non è smentibile che sia la Colombia ad avere avuto con Uribe i peggiori rapporti della storia con tutta la regione, dall’Ecuador alla Bolivia, dal Brasile al Venezuela tanto che nel discorso di insediamento Santos ha continuato una rettificazione (boicottata da Uribe e da Washington) che conduce da settimane: “non individuo un nemico in nessun paese vicino”.

Rispetto all’ennesima crisi gran-colombiana (un déjà vu per il quale, secondo Uribe, Chávez aiuterebbe e ospiterebbe la guerriglia delle FARC) la stampa italiana e il sempre più tendenzioso “El País” di Madrid si sono sforzati di incolpare il Venezuela e dare come credibile la versione uribista dei fatti.

Per capirne i retroscena, nel giorno nel quale Uribe è uscito di scena, è però utile guardare alla stampa colombiana e perfino al settimanale britannico “The Economist”. Quest’ultimo ha addirittura consigliato Santos di mandare il suo predecessore il più lontano possibile da Bogotà, foss’anche come ambasciatore a Pechino. La crisi sulla presunta presenza di santuari delle FARC in territorio venezuelano (2.200 km di una frontiera porosa e artificiale come poche) è infatti giunta in un momento nel quale Santos (e da Caracas Chávez) compivano il massimo sforzo per ripartire da zero con migliori relazioni.

Da un lato la nomina come ministro degli esteri di María Ángela Holguín, ex-uribista ed ex-ambasciatrice prima a Caracas e poi presso l’ONU, poi allontanatasi da questo denunciandone le clientele, dall’altro l’intimare alle FARC da parte di Chávez di deporre le armi e l’annuncio di voler essere presente al passaggio di potere, testimoniavano un atteggiamento positivo.

Va ricordato che chi ha ben più da perdere dalle cattive relazioni tra Bogotà e Caracas è la prima che altrimenti vanterebbe un surplus commerciale di oltre cinque miliardi di dollari l’anno (circa 7 miliardi di export contro meno di 2 miliardi di import di prodotti venezuelani). È un prezzo, quello del bellicismo regionale indotto da Washington in epoca Bush e per nulla rettificato da Barack Obama, che viene pagato soprattutto da quel 46% di colombiani poveri nel paese col maggior tasso di lavoro informale del continente, altra eredità (economica) nera dell’uribismo.

Mentre per il Venezuela, che ha peraltro altri gravi problemi a partire dall’inflazione, è stato facile rivolgersi al Brasile e all’Argentina come fornitori degli stessi prodotti colombiani, per Santos la sfida non è più la guerriglia ma una crescita economica ben al di sotto delle medie continentali (ma superiore al Venezuela troppo dipendente dal petrolio) per la quale il mercato venezuelano vale circa 1.5 punti di PIL all’anno.

L’ultima giocata di Uribe per condizionare in negativo la politica internazionale del suo successore è stata così fotografata (e stigmatizzata) dal brasiliano Lula che ne ha a lungo discusso in sede UNASUR (l’organismo che oramai sostituisce l’OSA per i conflitti intra-latinoamericani escludendo così gli Stati Uniti): “è proprio strano che tale scoperta si faccia pochi giorni prima del passaggio di potere, proprio quando il nuovo presidente mostrava buona predisposizione a raggiungere la pace. Andava tutto bene fino a che Uribe non ha presentato la denuncia”.

I motivi internazionali (l’eco statunitense anti-integrazionista è ovvio per Uribe) si accavallano così a temi di carattere interno colombiano. Il timore è che per Uribe il restare al centro della scena nazionale sia una scelta obbligata proprio per evitare di finire, una volta perso il potere, nel circuito giudiziario per i suoi innumerevoli crimini come accaduto a molti Ras del neoliberismo realizzato in America latina, da Alberto Fujimori a Carlos Menem. Anche la stampa colombiana, quella che sponsorizza Santos come in passato ha tirato la volata ad Uribe, ma che alla potentissima famiglia Santos fa riferimento, è quindi convinta che esista oramai una distanza siderale e una competizione tra i due e oramai differenzia senza pietà i due ex-sodali scaricando l’ormai ex-presidente.

Su “Semana”, settimanale di proprietà della famiglia Santos, si è denunciato a chiare lettere che Uribe avrebbe dedicato le ultime settimane del suo mandato “a raschiare il fondo del barile compromettendo le finanze colombiane per i prossimi vent’anni”. Appalti, privatizzazioni dell’ultima ora, prebende, nomine di amici, sarebbero state la principale preoccupazione delle ultime ore di Uribe come presidente.

E non meno a chiare lettere si ritorna ad affermare quello che per otto anni era stato messo sotto silenzio: il passato di Álvaro Uribe come narcotrafficante legato al Cartello di Medellin. Non pagherà Uribe (almeno non subito) per i falsi positivi, le migliaia di cittadini innocenti assassinati per farli passare come guerriglieri, né pagherà per la fossa comune de La Macarena, una delle più grandi scoperte al mondo dopo la seconda guerra mondiale, dove l’esercito colombiano ha abbandonato per anni le vittime delle sue violazioni di diritti umani. Ma chissà che una volta perso il potere non venga processato per crimini comuni, come un Al Capone qualsiasi.