L’anatema del globalista antilatinoamericano

Corriere della Sera, lancio pesante in prima pagina di domenica 14 maggio e intero primo paginone di cultura per un pezzo intitolato “Da Castro a Chávez, l’Europa sedotta dai leader populisti”. L’articolo è firmato da Ian Buruma, un professore olandese specializzato nel Giappone, editorialista del New York Times, e paladino della globalizzazione.

Tema dell’argomentare di Buruma è, guarda caso, il pericolo Chávez che starebbe facendo proseliti tra gli intellettuali europei per i quali va bene tutto pur che sia antiamericano. L’incipit è offensivo oltre che banale. Gli intellettuali europei, sono una categoria quanto mai sfuggente, e oltretutto, chi scrive se ne occupa di mestiere, la maggior parte degli intellettuali europei non sono per niente sedotti da Chávez, e molto meno appaiono sedotti da esperienze di cambiamento ancora più profonde, come quella che ha portato alla presidenza Morales in Bolivia. Quello del Corsera è allora semmai un avvertimento: non lasciatevi sedurre da Chávez.

Semmai tra l’intellettualità progressista e liberale europea è il pregiudizio antichavista ad allignare e le rotte del pensiero mainstream restano dominanti. Non solo a destra. Buona parte della sinistra postmarxista, postcomunista o neocomunista infatti, ha sempre visto come il fumo negli occhi ogni percorso alternativo a quelli europei. Questi, per definizione, rivendicano per se stessi la primogenitura di tutto. E infatti il “terzomondismo” è sempre più considerato un peccato gravissimo, anche se “terzomondismo”, come “populismo”, non significa poi molto.

E’ una storia lunga e credo che la foto che meglio rappresenti la nostra contemporaneità rispetto all’America Latina, resti ancora quella che vede, nei primi anni ’50, andare sottobraccio l’Ambasciatore statunitense a Buenos Aires con il segretario del Partito Comunista in Argentina (il più stalinista al mondo e che inizialmente approvò perfino il golpe Videla) in occasione di una manifestazione antiperonista.

Se si capisce a fondo quella foto si capisce anche l’estrema solitudine dell’America Latina, l’asprezza della rivoluzione cubana, la sostanziale complicità del mondo intero verso i colpi di stato fondomonetaristi, la rapina ignorata del neoliberismo che ha fatto i morti per fame perfino nelle terre più fertili del mondo. E si capisce perché continua ad essere sostanzialmente sola anche la nuova America Latina, che con percorsi originali tenta di allontanarsi da quel neoliberismo.

I capi di stato europei riuniti l’altro giorno a Vienna con i loro omologhi latinoamericani, hanno continuato a dispensare paternalisti consigli. Ma sono tutti consigli interessati e nessuno sa spiegare ad un esponente di un popolo originario ecuadoriano perché deve farsi strappare le terre dove vive perché altrimenti gli indici di borsa dell’ENI ne risentirebbero.

L’incomprensione è il tratto caratteristico delle relazioni Europa-America Latina. In un continente dove vivono 400 milioni di contadini, quasi tutti senza terra, ogni volta che qualcuno, come Evo Morales, o Joao Pedro Stedile, parla di riforma agraria, viene bollato come irresponsabile e… chissà perché, “antiamericano”! E’ un’automatismo grave e negativo per gli stessi interessi degli Stati Uniti. Questi scelgono di trasformare in conflitto politico ogni conflitto commerciale ed è chiaro che se tutto quello che non è espressione del fallimentare neoliberismo viene automaticamente bollato di antiamericanismo, alla fine l’antiamericanismo non potrà non tracimare.

IL COLMO DELL’ANTIAMERICANISMO Nelle settimane scorse si è giunti al massimo dell’ipocrisia. Il TLC tra Stati Uniti e Colombia ha messo fuori mercato la soia boliviana in Colombia. Nessuno se n’è preoccupato, ma migliaia di contadini poveri sarebbero stati ridotti all’inedia. Tra l’altro, ma è incidentale, la soia statunitense è transgenica, quella boliviana no. Pochi giorni dopo, un accordo firmato nell’ambito dell’ALBA -l’associazione tra Bolivia, Venezuela e Cuba- ha letteralmente salvato la vita ai produttori di soia boliviana, offendo uno sbocco ai loro prodotti a prezzi equi sui mercati dei paesi associati. Ebbene sulla stampa europea è stato definito un accordo “antiamericano”.
Ovviamente, se qualcuno avesse definito il TLC tra Stati Uniti e Colombia come “antiboliviano”, sarebbe stato ridicolizzato. Non avviene il contrario e autorevoli commentatori possono definire come “antiamericana” l’ALBA. E’ che tutto gira sempre intorno all’occidente e il commercio Sud-Sud è visto sempre con sospetto. Per non essere stigmatizzati come “antiamericani” dal Buruma di turno, che si vanta di essere esperto di diritti umani, ma da questi omette il diritto ad alimentarsi, i produttori di soia boliviani avrebbero dovuto lasciarsi morire di fame. Questo è il livello interpretativo su quello che succede in America Latina. Sempre più scadente, sempre più fazioso.

Fateci caso: finché la rivoluzione cubana è stata filosovietica si poteva essere pro o contro. Da quando l’URSS non c’è più, si può essere solo contro. Perché Cuba interessava agli europei solo all’interno del dibattito politico interno. Oggi, nessun dibattito su Cuba è possibile, e il solo voler discutere di Cuba ti fa bollare di castrismo impenitente. E oggi, la sopravvivenza e la fine dell’isolamento di Cuba, diventano per l’intellettualità ed i media europei innanzitutto inspiegabili.

In un contesto diverso abbiamo visto le stesse idiosincrasie eurocentriche rispetto ai fori sociali. Quando è stato chiaro che fossero i movimenti del terzo mondo a fare da guida e ad esprimere la forza e le idee originali e non fossero invece quelli europei (che esprimevano idee balzane come la Tobin Tax, della quale si è riso amaramente dal Pakistan alla Patagonia) a essere l’avanguardia del movimento, in Europa c’è stato immediatamente il riflusso. Un europeo, per quanto progressista e di buon cuore, difficilmente accetta di ricevere e non dispensare consigli.

Tornando a Buruma, questi insinua il dubbio che essendo impossibile appoggiare Chávez ed essere contemporaneamente onesti, alcuni intellettuali -fa una vera lista nera- sarebbero corrotti da opportuni inviti e viaggi pagati. Sarebbe fin troppo facile obiettare che un invito, una consulenza, una serie di conferenze, una cattedra, delle rubriche su prestigiosi media liberali strapagate migliaia di dollari per stare nel coro della messa cantata neoliberale, non scandalizzano per nulla Buruma. Basta guardare il curriculum dello stesso. E’ noto che un grandissimo intellettuale di sinistra messicano, fin’allora fustigatore indefesso del neoliberismo, moderò i suoi toni fino a zittire quando gli fu offerta una rubrichina fissa per un settimanale patinato femminile al prezzo, totalmente fuori mercato e sicuramente non pagato dal settimanale, di 5.000 dollari la settimana. E’ il libero mercato, no?

Consiglio, solo per cominciare a rendersi edotti sull’argomento, l’importante saggio di Francis Stonor Saunders, La guerra fredda culturale. La CIA e il mondo delle lettere e delle arti, Fazi, 2004, per capire come va il mondo almeno dalla fine della seconda guerra mondiale.
Collaborazioni, comparsate, rubriche strapagate, anticipi milionari per libri che poi venderanno poche copie, ma creeranno il “guru liberale” o il “chicago boy” o il “prestigioso intellettuale”. Questo ovviamente non scandalizza Ian Buruma, che di questa trafila di prebende è egli stesso gran beneficiario. E’ normale che chi tiene il turibolo alla classe dirigente del pianeta sia da questa ricompensato e cooptato. E’ invece preoccupatissimo per il fatto che l’intellettuale britannico Tariq Alì sia stato nominato consulente di Telesur, la televisione pubblica multistatale latinoamericana. Chávez, il terzomondista ricco, spariglia scandalosamente i giochi. Secondo Buruma il compenso -eventuale- della consulenza di Tariq Alì dimostra che Chávez sia un corruttore di coscienze, ma non nomina i suoi ricchi cachet come conferenziere o consulente o editorialista liberale che invece sono guadagnati onestamente. Patetico.

IL DEMONIO CHAVEZ Lo strepitare antichavista di questi giorni è ciclico. Infatti ogni volta che il presidente Chávez viene in Italia viene accolto meglio, con più rispetto e considerazione. Chávez vuole inserire il Venezuela e l’America Latina nel mercato mondiale in maniera equa, cosa impensabile per chi ha rapinato il continente per decenni spacciando tale rapina per libero mercato. Anche il brasiliano Lula vuole la stessa cosa, e lo stesso vuole l’argentino Kirchner. La loro relazione è totalmente sinergica, ma si preferisce raccontarli l’un contro l’altro armati anche se, nel solo 2005, ci sono stati ben 42 vertici a due o a tre. Tutti vogliono un’equa inserzione dei loro paesi nel mercato capitalista e ad alcune penne questo inquieta. Ci sono capitalisti che vogliono continuare a rapinare, tra questi c’è l’ENI, e capitalisti che vogliono fare affari. Questi ultimi fanno la fila per firmare contratti in Venezuela, un paese che sta costruendo migliaia di ospedali, scuole, autostrade, ferrovie, metropolitane.

Perfino la visita in Vaticano con Benedetto XVI è andata bene per il governo bolivariano. Per confutare tale dato di fatto, sempre il Corriere di un paio di giorni fa, ha riesumato quel gran democratico del cardinal Castillo Lara di Caracas, un reazionario della più bell’acqua che non ebbe alcun dubbio nel benedire il colpo di stato dell’11 d’aprile 2002 e che adesso dice papale papale che Ratzinger si sarebbe dovuto rifiutare di ricevere il demonio Chávez. Ovviamente l’opinione di un vecchio cardinale ultrareazionario e con le mani sporche di sangue, se serve a denigrare Chávez, può essere fatta prevalere sul Corsera perfino su quella di Ratzinger che lo riceve normalmente.

L’articolo di Buruma è l’ennesima occasione per mettere Chávez nella stessa barca con Mao (sic!) e l’immancabile Ahmadinejad, per considerarlo null’altro che un burattino di Fidel Castro, e paragonarlo al povero Perón, del quale si continuano a 32 anni dalla morte a scrivere falsità. Nella stampa europea, il povero Perón viene SEMPRE stigmatizzato come “dittatore argentino”. Giova ricordare che dittatore non fu mai, governò sempre in democrazia ed anzi fu fatto cadere dal colpo di stato fondomonetarista del 1955. E’ facile approfittare della cattiva memoria dell’opinione pubblica.

IL RITORNO DI PERON Giova ricordare che tutti i dittatori argentini, quelli sì dittatori nei decenni più tristi della storia del paese, furono tutti ferventi amici della Casa Bianca e furono innanzitutto antiperonisti. O meglio furono amici della Casa Bianca innanzitutto perché antiperonisti, mentre nel paese il popolo argentino scriveva la storia dei 18 anni di resistenza che permise il ritorno del vecchio (e a quel punto reazionario, ma non dittatore) Perón.

Un paio d’anni fa, Furio Colombo, da direttore dell’Unità, arrivò a scrivere testualmente -in un editoriale in prima pagina- che Perón fosse stato un dittatore clericale. Non era né dittatore né clericale. Al contrario, i peronisti -che erano mezzi anarchici- bruciavano le chiese e la chiesa cattolica argentina fu sempre la prima nemica del peronismo, tanto da celebrare il colpo di stato antiperonista e da benedire quei militari che torturavano e assassinavano i peronisti, tra i quali sì, si trovavano molti cattolici di base e centinaia di sacerdoti del “movimento per il terzo mondo”. Siamo abituati a pensare che la damnatio memoriae, in epoca contemporanea, sia stata un’esclusiva del più bieco stalinismo sovietico e invece la scopriamo appartenere al mondo liberal dei Buruma e dei Furio Colombo. Basta avere memoria.

Buruma, nel suo crescendo antichavista, arriva all’iperbole di scrivere che i famigerati “intellettuali europei”, pur di schierarsi contro gli Stati Uniti, siano pronti a tessere le lodi del dittatore nordcoreano Kim Jong Il. Ma quando mai! Ma dove li ha visti? E’ in grado Buruma di elencare qualche nome? A Buruma tutto fa brodo: chi critica gli Stati Uniti allora è dalla parte di Kim Jong Il… e di Chávez. Sono argomenti così stantii -chi non ricorda che chi era contro la guerra era amico di Saddam Hussein?- che sorprende che il Corriere della Sera giustizi centinaia di alberi per dedicare una pagina a tali banalità.

E IL CARACAZO? Forse per captare la benevolenza del lettore, Buruma tenta un iperbolico paragone tra Chávez e Berlusconi, anche se ovviamente salva il secondo per stigmatizzare il primo. Va avanti per una paginata intera con tutti i luoghi comuni antichavisti senza mai neanche per sbaglio ammettere che la democrazia venezuelana fosse solo un simulacro quando apparve Chávez. Ricorda il tentativo di colpo di stato del trentenne Chávez del 1992, ma gliene sfugge l’essenza. Chávez e i suoi erano i militari che tre anni prima si erano sottratti alla furibonda repressione del popolo -il Caracazo- che fece migliaia di morti. Chávez si rivolta perché l’esercito fu usato dal bipartitismo liberale contro il popolo. Chávez e i suoi erano i militari che si erano rifiutati di sparare sulla gente affamata di Caracas. Colpa grave per Buruma ed i suoi, per i quali quelle migliaia di morti non contano nulla. Il fatto che proprio da quell’episodio così cruento germinasse il nuovo Venezuela bolivariano nel quale mai più l’esercito è stato usato per massacrare il popolo, lo lascia indifferente.

E IL COLPO DI STATO? Buruma non sa, o fa finta di non sapere, che in Venezuela l’11 aprile 2002 andò in onda il primo colpo di stato della storia condotto dalla televisione, tutta nelle mani dell’opposizione. Non sa che anche dopo la riforma chavista del 2004 del sistema radiotelevisivo venezuelano questo resta all’80% in mano dell’opposizione. Eppure Buruma è terrorizzato da una censura inesistente. Si lamenta Buruma della riforma della corte suprema in Venezuela? Fa finta di non ricordare che la corte suprema è stata l’unico organo nel paese e nel mondo a sostenere che in Venezuela non ci fu un colpo di stato l’11 aprile del 2002.

Povero Aznar, povero FMI, povero Bush; riconobbero un governo golpista di un golpe mai esistito. Non ricorda Buruma, che mette al terzo posto tra i cattivoni latinoamericani l’argentino Nestor Kirchner, che anche questo ha riformato la corte suprema in Argentina dopo che questa era rimasto l’ultimo inattaccabile bunker del menemismo che teneva in ostaggio la giustizia in un paese di 37 milioni di abitanti?

IL NODO DEL PRESIDENZIALISMO Su di un punto ha ragione Ian Buruma. I presidenti del continente americano hanno troppo potere. Ovviamente Buruma teme il potere dei presidenti sudamericani mentre è più accondiscendente con quello ancora più grande dei nordamericani, ma ha ragione. Eppure Buruma dovrebbe sapere perché in tutto il continente americano furono imposti modelli presidenzialisti laddove in Europa non ne esiste neanche uno. Il sistema presidenziale supplisce monocraticamente alla difettosità della rappresentanza da parte dei diversi soggetti della società civile, che molto meglio sintetizzano le democrazie parlamentari europee.

Ma da quando il vecchio James Monroe stabilì che il continente intero fosse il cortile di casa degli Stati Uniti, nessuna democrazia si è potuta mai sviluppare in maniera armonica fino a darsi un’altra forma più matura, quella parlamentare che rappresentasse le diverse istanze della società. Ma il presidenzialismo latinoamericano è stato sempre funzionale al mantenimento al potere delle oligarchie conservatrici, e dei potentati economici sempre alleati degli Stati Uniti.

Ogni volta che la società civile latinoamericana ha avuto la forza di cercare equilibri più avanzati, è stata castigata dalle oligarchie appoggiate dagli Stati Uniti. Un sistema presidenziale è semplice ed efficace da controllare: il presidente può essere amico o nemico e se è nemico può essere boicottato, denigrato, schernito, gli si può organizzare contro un colpo di stato.

La sinistra latinoamericana, tra i molti deficit storici, ha sempre avuto quello di non mettere al centro dei propri programmi la riforma in senso democratico dello stato, facilmente identificabile con l’abbandono del presidenzialismo. Sforzo titanico: i governi popolari, presenti e passati arrivano al governo sulla base di istanze storiche, di fami ataviche e di ingiustizie da sanare. E’ purtroppo impensabile che un presidente progressista arrivi al governo e come primo atto limiti il proprio potere in favore di migliore e maggiore rappresentanza. Eppure le cose stanno cambiando anche in questo senso.

Proprio la costituzione partecipativa che si è data la Repubblica Bolivariana del Venezuela rappresenta il più avanzato modello di democratizzazione della partecipazione politica nella storia del continente. Lo seguirà a breve il processo costituente boliviano già convocato. E’ una primavera dei popoli e dell’allargamento della rappresentanza quello che sta vivendo l’America Latina. E’ un cammino lungo e difficile, ma è in corso.

Il Buruma di turno è scandalizzato dai processi elettorali venezuelani. Ma è scandalizzato perché vince Chávez e non quell’opposizione che si autodenomina “alta società civile”. Fa finta di non conoscere che l’indice IDE delle Nazioni Unite, che parametra il diritto di voto, la trasparenza e la libertà di voto e la varietà e sostenibilità degli incarichi elettivi, attribuisce alle elezioni in Venezuela un indice di 0,99 su 1.00 che è il massimo. Per fare un paragone calzante il Cile, identificato come il modello dei modelli positivi da Buruma, ha un indice di appena 0,75 e il sistema elettorale pinochetista, che la democrazia liberale si guarda bene dal cambiare, è uno dei meno democratici al mondo. Ovvero le elezioni che hanno eletto la beniamina dei liberali Michelle Bachelet sono molto più preoccupanti per le Nazioni Unite rispetto a quelle che hanno eletto in questi anni Hugo Chávez. Ci vogliamo domandare seriamente perché di questo non si parla?