"Se perdo il posto ritorno al paese"

La paura degli operai dopo l’ipotesi di 60.000 tagli

GIANNI ARMAND-PILON

TORINO
«E se tocca a me?». Se così fosse, se davvero un giorno dovesse scoprire che uno dei 60 mila posti del comparto auto a rischio è il suo, Rosa Carlino, classe 1959, addetta al montaggio della Mito a Mirafiori, una via d’uscita l’ha già studiata: «Mollo tutto e me ne torno al paese, in provincia di Lecce. Là è tutto più facile, ci si aiuta, si vive con poco. Là, forse, ce la posso fare». Per Rosa e per migliaia di operai come lei, davanti alla porta 2 di Mirafiori è l’ora del cambio turno e della paura. Paura dei venti di crisi, della cassa integrazione annunciata dall’azienda tra febbraio e marzo («cassa vera, mica come l’ultima volta quando ci hanno obbligato a smaltire le ferie») e, adesso, del posto di lavoro. Lei ai suoi due figli glielo ripete tutti i giorni, nella piccola casa di Beinasco dove a un certo punto della sera il tinello si trasforma in camera da letto: «Vostro padre è operaio come me, siamo nella stessa situazione. Se saltiamo, non ci resta che questa soluzione: andarcene». E i ragazzi? «Non vogliono, ovvio. Anche il padre non vuole. Ma io dico: che ci stiamo a fare a Torino?

Già così, con 1100 euro al mese, detrazioni comprese, per me è dura: senza neanche quelli, vivere diventa impossibile». Alle fermate, i pullman scaricano gli operai che entrano e ripartono con quelli che escono. Tre militanti della Sinistra critica distribuiscono volantini sull’ultimo accordo siglato senza la Cgil. Caterina Gurzì, anni 52 anni, addetta alla lastratura, un marito in mobilità e una figlia adolescente che studia da tecnico della moda, se ne infila uno in tasca e intanto pensa a sé: «Sono anni che tiriamo la cinghia. Risparmiamo su tutto: la spesa si fa dove c’è più sconto, l’auto è ferma in garage, mai una pizza, mai un film. Se perdo anche il lavoro, che cosa mi resta?». Nei discorsi degli operai di Mirafiori tengono banco l’allarme di Marchionne sui posti a rischio e gli aiuti all’auto. E tutti, dal giovane carrellista che lavora per la società esterna all’anziano a un passo dalla pensione, sembrano avere le idee molto chiare su cosa deve fare il governo Berlusconi: varare il piano d’aiuti («in tutta Europa lo hanno già fatto»), ma a patto che gli investimenti restino all’interno dei confini nazionali. «Basta con la Polonia, basta con la Cina e con l’India», si scalda Antonio D’Orta, moglie, due figli di 13 e 10 anni, 880 euro al mese con la cassa integrazione e nessun altro reddito in casa: «In passato troppe sovvenzioni hanno preso la strada dell’estero. Devono costringere le aziende a investire sull’Italia. Ma lo sa che la Polonia ci manda le Panda da mettere a punto prima di spedirle nelle concessionarie? Siamo diventati dei riparatori: alla Polonia la grossa commessa, a noi le briciole. Io sono stufo di alzarmi alle 4 del mattino per fare questa vita». E Maria Carmela Sergi, 48 anni, separata, due figlie, una di 12 anni, l’altra un poco più grande ma già mamma: «Viviamo con 700 euro al mese perché grazie al divorzio ho il quinto dello stipendio pignorato.
Il governo varerà un piano per l’auto? Bene, ma dev’essere un aiuto che migliora anche la vita di noi operai. Io non arrivo a fine del mese. Mi faccio aiutare dalla chiesa: mi portano il pane, un po’ di pasta, e non basta mai». Sembra incredibile, ma nella città che di colpo ha riscoperto i suoi operai c’è chi guarda a questi lavoratori come a dei privilegiati. Basta spostarsi a Borgaretto, un chilometro scarso in linea d’aria da Mirafiori, e infilarsi in una delle tante aziende dell’indotto auto per respirare un’altra aria. Qui non si sente parlare di aiuti, ma solo dei posti di lavoro che la crisi potrebbe spazzare via. Due giorni fa una di queste ditte, la fratelli Rinaldi, ha portato i libri in Tribunale e lasciato a casa qualcosa come ottanta persone. E altre, adesso, temono di fare la stessa fine. Massimo Surra, 33 anni, sposato, una figlia, è titolare di una ditta di attrezzature meccaniche. Racconta: «La Fiat ha i riflettori di tutti addosso, e mal che vada i suoi operai avranno la cassa integrazione. Ma noi? Chi pensa a noi? Ho 6 lavoratori, tutti assunti con contratto a tempo indeterminato. E sono mesi che i clienti non mi pagano.
Per legge sarebbero tenuti a farlo entro 60 giorni, ma quando mi va bene lo fanno dopo 150 o 160. Io non sono la Fiat. Io sono una “snc”: se i conti non funzionano, devo prendere i soldi dal mio conto e metterli in fabbrica». Mario Martino è titolare della Omc, torniture e fresature. La tuta da lavoro blu che indossa e le mani unte d’olio lo fanno somigliare più a un operaio che a un piccolo imprenditore. Infatti parla come loro: «Io non ho nulla contro gli aiuti all’auto, perché se riparte la Fiat c’è speranza che si rimetta in moto anche il resto. Ma questa volta non un euro deve prendere la strada dell’estero. Io non so quanti nel governo sanno in quale condizioni drammatiche si trova l’indotto. Io le dico solo questo: ogni anno a gennaio la Fiat chiede sconti del 10 per cento sostenendo che sennò non rientra nei suoi costi; e a luglio taglia un altro 5 per cento. Ma come faccio io a lavorare a 15 euro l’ora e a far quadrare i miei conti? Questa crisi ci ammazza». Otto anni fa, una di queste piccole ditte che si occupava della verniciatura dei ricambi Fiat fu costretta a chiudere per mancanza di commesse. Gabriella Sicca, un’operaia, fu fortunata: riuscì a passare come trattorista alla Ceva e a entrare così nell’orbita della Fiat e di Mirafiori. Adesso dice: «La crisi rilancerà la ricambistica, ne sono certa. Ma per me è troppo tardi per cambiare un’altra volta. Spero negli aiuti. E in qualche auto in più prodotta a Mirafiori».

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