Tony Blair, il criminale di guerra del rapporto Chilcot, va processato anche in nome dei pacifisti del 2003

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Leggi il rapporto Chilcot (si consiglia almeno la copertura del Guardian), dal nome del presidente della commissione d’inchiesta britannica sulla guerra in Iraq, e il sapore è doppiamente amaro. Amaro innanzitutto perché l’instabilità del mondo attuale, una regione intera nel caos geopolitico, centinaia di migliaia di morti, milioni di rifugiati, la spada di Damocle del terrorismo islamista, dipende in larga misura da quella guerra criminale, le conseguenze della quale sono pagate ancora oggi innanzitutto dagli iracheni, ai quali non è mai stata “esportata la democrazia” promessa, ma solo lutti e distruzioni.

Tony Blair, il criminale di guerra, continua a blaterare parole senza senso, affermandosi convinto che il mondo sia comunque più sicuro che ai tempi di Saddam Hussein (sic) e dicendosi “in buona fede”. Buona fede? La realtà documentale del rapporto Chilcot è che lui stesso prese parte attiva nel fabbricare rapporti falsi, manipolare prove, truccare fotografie e orchestrare una colossale campagna internazionale che avallasse quella guerra. Giova ricordare che prima di rendersi colpevole di quei crimini di guerra, nel proprio curriculum Blair aveva l’avere con metodi analoghi scalato e completamente disarticolato il partito laburista, il suo partito, rendendolo funzionale al modello economico vigente che quella guerra volle, e totalmente innocuo nel difendere gli interessi dei propri elettori. Giova ricordare che non tutti scelsero come Blair di seguire Bush “sarò con te qualunque cosa accada”; Germania e Francia si sottrassero dignitosamente a quella guerra criminale.

La realtà, che il rapporto Chilcot rende ineludibile anche ai più recalcitranti difensori, è che Blair mosse quella guerra all’interno di un piano criminale ordito al fine di permettere guadagni colossali al circolo più stretto delle multinazionali vicine a lui e in totale subalternità a George Bush, e che ancora adesso controllano con i loro eserciti privati il paese e fanno profitti colossali ai danni della popolazione irachena. Anche se il conflitto, afferma il rapporto Chilcot, non aveva motivazioni valide, per loro la missione continua a essere compiuta.

Ma il sapore è doppiamente amaro per quei cento milioni di persone che, quel 15 febbraio 2003, scendemmo in piazza contro la guerra in Iraq e per dire “not in my name”. Non solo avevamo ragione, ma tutti i nostri argomenti, frutto di studio e serietà, non di ideologismi, erano validi e la Storia ci ha dato ragione. Avevamo letto gli interessi economici e previsto l’instabilità, i lutti, il terrorismo. Molti editorialisti che ancora oggi imperversano, mentre Bush e Blair addestravano e finanziavano l’attuale ISIS, ci accusavano di essere complici di Saddam Hussein e contro la democrazia. Era esattamente il contrario. No, non ripaga affatto l’aver avuto ragione, perché la straordinaria violenza usata contro quel movimento, con i mille cannoni del sistema mediatico monopolista che scelse di credere a tutte le menzogne e tutti gli argomenti falsi creati a tavolino, ci sconfisse, ci spezzo la schiena e da allora quella primavera che veniva da Porto Alegre non è più tornata.

Ora chi ha a cuore la giustizia dovrà vigilare. E’ dubbio che la democrazia britannica abbia la forza endogena di processare e condannare il criminale di guerra Tony Blair. Ci vorranno istanze internazionali (Robert Fisk sull’Independent parla di una Norimberga), pressioni, sanzioni come quelle applicate sistematicamente a paesi periferici, perché Tony Blair, e come lui George Bush e i loro più stretti collaboratori, siano consegnati a un Tribunale penale internazionale che possa garantire loro un giusto processo per gli imprescrittibili crimini contro l’umanità dei quali sono accusati.