Welby, un omicidio politico?

Il mio articolo sulla morte di Piergiorgio Welby ha causato una serie importante di reazioni, quasi tutte private, alcune apparse in mailing list pubbliche o siti dove il pezzo è stato ripubblicato. Rispondo in maniera collettiva e me ne scuso come mi scuso del ritardo nel rispondere.

Nell’articolo notavo come sul caso Welby si fossero confrontati due opposti estremismi, quello ratzingeriano, ostinato nel negare l’evidenza di un dramma sociale enorme, e quello radicale, che impone alla società la propria visione di mondo, semplificando in maniera scellerata problemi complessi, ed ergendosi, senza alcun diritto, a tutore della morale laica in maniera del tutto avventuristica. Ho ricevuto reazioni positive, reazioni critiche “papiste”, ma soprattutto reazioni che difendevano a spada tratta l’agire del partito radicale (nella foto Marco Pannella in divisa da ustascia croato). Qualcuno, in maniera colorita e divertente -ma con volontà di offendermi- mi ha definito “il nuovo Binetti”. E’ a quest’ultimo tipo di obiezioni che rispondo in questa nota.

Il punto fondamentale è che è necessario un ossimorico “atto di fede laica” per considerare accettabile quanto successo all’alba del 21 dicembre.

Chi lo ha accettato ha voluto rimuovere il dubbio che la volontà di Welby possa non essersi mantenuta costante fino all’ultimo istante, e che tutti i soggetti coinvolti abbiano agito se non in diritto, almeno in buona fede. Non è importante che chi scrive non sia disposto a compiere tale atto di fede, ma è evidente che un magistrato non può, per dovere d’ufficio, partire da tale atto di fede per accertare le circostanze della morte di Piergiorgio Welby. Di conseguenza quello Welby, fino a prova contraria, è un omicidio volontario che solo successivamente può eventualmente essere edulcorato con attenuanti. Solo successivamente può essere presa per esempio in considerazione la tesi della sospensione dell’accanimento terapeutico.

L’accertamento della volontà di Welby non è un dettaglio marginale e non si può liquidare “ritenendo che”. Prendo atto con sgomento che, alla notizia della morte di Welby, milioni di italiani, in stragrande maggioranza laici, sono stati disposti a compiere questo atto di fede. Abbiamo una lettera al Presidente della Repubblica e poco d’altro che ci fanno ritenere che Welby desiderasse morire. Può essere sufficiente?

Verificare la volontà di un malato in quelle condizioni non è ovvio, tanto più se la registrazione della sua volontà è finalizzata a qualcosa di irreversibile come la morte. Tale malato –e con lui le migliaia di Welby anonimi- è probabilmente vittima di una grave depressione, ma, se non la patologia, la depressione può essere curata. E’ probabilmente sotto effetto di farmaci e soprattutto psicofarmaci devastanti che ne inficiano senz’altro la capacità di intendere e di volere. Ciò senza contare i terzi che lo hanno circondato, familiari e non. Nessuno può essere sicuro che non abbiano istigato Welby al suicidio. E l’istigazione al suicidio è un reato gravissimo. Chi può essere sicuro che abbia davvero deciso Welby? Chi può essere sicuro che Welby non sia stato indotto suo malgrado a trasformarsi in uno shahid, un martire della causa dell’eutanasia, così come una ragazza o un ragazzo di Gaza disperato si trasforma in kamikaze?

Siamo di fronte alla morte di un uomo in un contesto di pauroso vuoto legislativo. A causa di questo vuoto legislativo, uno sparuto gruppo di persone si è ritenuto in diritto di agire in maniera “dimostrativa”, “esemplare”, al fine di provocarne la morte. Questo sparuto gruppo di persone, il Partito Radicale, ha ottenuto degli evidenti dividendi mediatici e politici facendo leva sulla disperazione di Welby e di migliaia di famiglie che vivono o hanno vissuto drammi simili.

Ammesso e non concesso che un ristretto gruppo di persone, coinvolgendo lo stesso Welby, abbiano solo agevolato la volontà chiara e ferma di questi, comunque non tutto sarebbe risolto.

Affermare, come fa apertamente l’anestesista, che Welby è morto a causa della sua malattia -e non per l’intervento di questi- perché incapace di vivere senza la macchina alla quale era legato, è un’affermazione raggelante per semplicismo, cinismo ed è ad un passo dall’eugenetica nazista. Welby poteva vivere un giorno o dieci anni ma senza intervento esterno non sarebbe morto. La morte di Welby è stata usata in maniera dimostrativa per denunciare un reale vuoto legislativo in Italia. Può essere un precedente? Se non è in sé un abuso, comunque si presta a giustificare abusi ed abiezioni. Welby, ammesso e non concesso, sarebbe morto perché aveva deciso di morire. Quello che è certo è che la sua morte è stata causata dall’azione dell’anestesista e solo successivamente possono essere considerati altri fattori, eventualmente attenuanti, come quello del consenso della vittima, oppure, a discolpa totale del medico, la tesi dell’interruzione di accanimento terapeutico. Mi permetto di dubitare che un magistrato possa, in maniera così deterministica, prosciogliere i protagonisti della vicenda.

Infine è chiaro che se suicidarsi non possa essere mai considerato un crimine, è altrettanto chiaro che, nel contesto della malattia terminale, il confine tra “suicidio assistito” (eutanasia) e “induzione al suicidio” (omicidio) debba essere ferreamente stabilito e verificato. Quali che siano i motivi delle perplessità della cultura cattolica il dibattito nel paese non può neanche partire dall’accelerazione imposta dai radicali con il caso Welby. Sembra superfluo ricordare che il ratzingerismo è per fortuna solo un’espressione estrema di una cultura fondamentale in questo paese e con la quale è sempre stato possibile dialogare. La volontà radicale del muro contro muro fa pertanto retrocedere e non avanzare un dibattito che non può fare come se la cultura cattolica, e anche la prudenza sul tema di molti laici, non esistessero.

E’ preoccupante che, nel vuoto pneumatico del centrosinistra, e nel sacro terrore della maggioranza di aprire fronti che possano disgustare il Vaticano, esista un popolo laico preoccupato, insoddisfatto e ferito, per il quale anche un obbrobrio come quello che ha ucciso Welby è meglio che la retrocessione continua degli spazi di laicità dello stato che caratterizzano questi tempi. Ma se laicità non è sinonimo di anticlericalismo, è ingenuo pensare che la giusta battaglia per il ripristino della laicità dello stato possa essere impostata su casi mediatici in grado di soddisfare la sete di propaganda del Partito Radicale ma di non spostare di un centimetro i termini di questioni complesse.

E’ spaventoso che in troppi possano avere la tentazione di ripristinare la laicità dello stato applaudendo o difendendo l’avventurismo omicida dell’ustascia Marco Pannella, che va a braccetto con Josef Ratzinger in molti più campi di quanto ai laici onesti piace pensare o ammettere.