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Il parigino e l’ottentotto

Paragonare Cuba (o l’America Latina) alla Svezia è fuorviante. Sarebbe come dire che siccome non possiamo sposare tutti/e Fanny Ardant o Marcello Mastroianni, meglio l’astinenza, o siccome non possiamo andare in Ferrari allora non andiamo neanche in 500.

E’ apprezzabile della Rivoluzione cubana che veramente non sia (soprattutto da 17 anni a questa parte) calco e copia d’altro. La Rivoluzione cubana realizza José Carlos Mariátegui e il marxismo creatore latinoamericano. I cubani, probabilmente non i burocrati più ortodossi, ma la maggior parte di quelli che mandano avanti quella baracca (perché qualcuno deve mandarla avanti la baracca), fanno proprio quanto disse Simón Rodríguez, il maestro di Bolívar: “o inventamos o erramos”, o vinciamo noi la battaglia delle idee o affondiamo. Non perché vivono in una società perfetta (Pablo), perché solo gli europei sono così tonti da esigere che Cuba (e solo Cuba) sia perfetta, come se la loro società fosse davvero perfetta, ma perché l’alternativa per i cubani sarebbe l’inedia neoliberale. L’europeo medio, anche quello bravo e solidale, misura il pianeta sulla similitudine con quello che ritiene il migliore dei mondi possibili.

Ammesso e non concesso che siano i migliori, pretendere che una società del terzo mondo si confronti con i migliori esempi di sviluppo del pianeta è in primo luogo frustrante, in secondo luogo fuorviante, ma soprattutto paralizzante. Ogni società compie un percorso, la storia non fa salti. Ne discutevo con Rodrigo Cháves, ex ambasciatore venezuelano a Roma, oggi viceministro degli esteri con delega all’Europa, e rimanevo affascinato proprio dalla coscienza della lentezza irreversibile di un percorso rivoluzionario.

Una delle grandi menzogne del Fondo Monetario Internazionale è stato millantare che le proprie ricette neoliberali fossero universali. Al di là della malafede profonda di un’istituzione che si presenta come democratica e che invece (Cfr. Gennaro Carotenuto, «Le regole perverse del Fmi», Latinoamerica, Anno XXII, n. 81, ottobre-dicembre 2002, pp. 82-87) funziona per statuto come il consiglio d’amministrazione di una banca e quindi risponde agli interessi dei propri azionisti di maggioranza, i paesi ricchi, è chiaro che non può essere così. E’ chiaro ad ogni persona in buona fede che privatizzare l’acqua in Bolivia, rispondeva solo alle esigenze della Suez e della classe dirigente (non è un caso che Sánchez de Lozada sia stato rimandato a Miami). Se in Bolivia vi fosse stato un regime democratico a nessun aymara poteva essere imposta una cosa così ridicola come vendere (regalare oltretutto) l’acqua che sgorga dalla pachamama ad una multinazionale francese.

Il paragone Haiti-Svezia, o Albinoleffe-Juventus, è frustrante come è frustrante (e razzista) avere imposto ad una bambina peruviana la bambola Barbie come modello di bellezza. Fuorviante perché se levassimo alla Svezia o a qualunque paese occidentale quel terzo (minimo) di Prodotto Interno Lordo derivante da “rendite da colonialismo” probabilmente vedremmo in Svezia tensioni sociali ben poco democratiche. In Svezia ogni lavoratore (forse) ha i propri contributi versati e ogni operaio edile ha il proprio caschetto ben messo e le scarpe antiscivolo come dio comanda, guadagna 1.500 Euro al mese e gode di efficientissimi servizi pubblici. Viva la Svezia. Siamo (vorremmo essere) tutti svedesi. Anche i cubani. Soprattutto i rivoluzionari. Ma cosa succederebbe se la Svezia volesse (o dovesse) acquistare ogni minerale che entra nel paese e ogni prodotto agricolo che importa, solo da un paese e da imprese dove i lavoratori godono di altrettante garanzie sociali ed economiche dei lavoratori svedesi?

Cosa succederebbe se tutti i minatori, gli operai e i contadini del mondo da oggi guadagnassero 1.500 Euro al mese? Quanto saremmo frustati del non portarci più a casa quel lettore di DVD (una macchina tecnologicamente fantastica) a 29.90 Euro, il prezzo di un paio di cartoni di latte?

Ho la fortuna di girare con una certa intensità sia l’Europa che l’America Latina. Oggettivamente non vedo tanti motivi per i quali un europeo dovrebbe desiderare Cuba. La vita è aspra, i consumi (che non sono necessariamente sinonimi di consumismo) sono talmente compressi da essere difficile non scoppiare. Soprattutto da parte di chi è abituato ad un minimo di agio. Non sto parlando del lettore di DVD. Nel periodo speciale, ora va meglio, si parlava degli assorbenti per le donne, per esempio. Quale ragazza europea, per quanto rivoluzionaria, desidererebbe rinunciare agli assorbenti quando ne ha bisogno?

Ma chi lo dice che il confronto va fatto con la Svezia? Una delle misure del fallimento del socialismo reale fu l’allontanamento della Boemia e della Moravia dagli standard di vita della Germania, paese con il quale poteva compararsi prima. E’ la depressione dello standard di vita della Cecoslovacchia, non certo quello della Romania a dare la misura del fallimento. Perché la Cecoslovacchia era stata più o meno come la Germania, la Romania, mai. Abbiamo visto Menem o Zedillo proclamare l’ingresso di Argentina e Messico nel primo mondo e non abbiamo mai provato così tanta vergogna per loro, “verguenza ajena” come si dice in latinoamerica. Chi porta Cuba o il Guatemala nel primo mondo? Neanche Fidel Castro, possibilmente per scelta, perché entrare nel primo mondo significa necessariamente beneficiare di quelle “rendite da colonialismo”, sulle quali il primo mondo costruisce il proprio benessere. Il paragone dunque non può non essere fatto che con la regione.

Vi ricordate il parigino e l’ottentotto? Qualche tempo fa, con alcuni amici, ricordo ci fossero Quintín Cabrera il cantautore uruguayo-madrileno, e José Luíz del Roio, che oggi è senatore in Italia, ci mettemmo a calcolare quanto varrebbero in un paese latinoamericano i servizi che lo stato cubano dà gratuitamente a tutti i cittadini. Proviamo ad elencarli, a partire dalla casa. A Cuba ci sono problemi abitativi a volte drammatici, ma vivaddio un tetto sulla testa c’è. Il parigino svedese inorridirebbe a vivere in alcuni condomini dell’Avana, ma un ottentotto che vive nel cerro di Montevideo farebbe carte false per una casa popolare cubana. La vorrebbe, la desidererebbe, perché risolverebbe il suo problema abitativo qui ed ora, non in teoria. Non in Svezia, nel cerro di Montevideo. Andatelo a dire in faccia ad un profugo colombiano, che fa dormire i figli sotto un telo di plastica, che i cubani sono disgraziati perché vivono in dittatura mentre lui è fortunato perché vive in democrazia. Potrebbe non reagire gentilmente.

Poi c’è la salute, l’educazione e il non avere bisogno che i figli vadano a lavorare. Un europeo che, bene o male, se ha mal di pancia va dal medico, neanche riesce a pensare a cosa significa non avere alcun accesso a cure mediche opportune. Ma non avere accesso a cure mediche è la realtà per circa un quarto della popolazione latinoamericana. 150 milioni di latinoamericani e almeno 50 milioni di statunitensi darebbero un braccio per avere un medico cubano a disposizione quando i loro bambini stanno male. Il nostro parigino svedese non pensa assolutamente che i propri bambini potrebbero essere costretti a lavorare mentre l’ottentotto brasiliano della Rocinha purtroppo sì. E’ probabile che l’ottentotto del Callao di Lima -che non è fesso- capisca che il parigino svedese stia comunque meglio dell’ottentotto cubano. Ma siamo sicuri che per andare da Lima a Stoccolma si possa evitare di passare dall’Avana? E materialmente, come si fa ad andare da Lima a Stoccolma visto che abbiamo tutti diritto ad essere svedesi, alti e biondi?
Per il momento il limeño del Callao sa che in epoca neoliberale, a causa della denutrizione diffusa, la sua altezza media si è abbassata di tre centimetri e che sua figlia, che desidera tanto essere Barbie, resta bruna, è più bassa e, siccome mangia pessimo, è pure più grassottella di sua madre. E’ bellissima Stoccolma, ma come si fa ad andare a Stoccolma partendo da Lima? Come si fa a diventare Barbie? E chi dice che bisogna diventare Barbie?

Poi ci sono alcuni servizi peculiari. Per esempio pagare l’abbonamento telefonico 70 centesimi di Euro al mese con incluse tutte le urbane e sei ore di interurbane è interessante per un argentino che fino al 2001 pagava 25 centesimi per 120 secondi di chiamata urbana. Certo, la libertà di telefonare quasi gratis non sostituisce ed è incomparabile con la censura di stampa a Cuba, ma qualcosa vale.

I nostri calcoli, approssimativi ed economicisti, dicevano che i servizi che lo stato cubano offre, valgono in latinoamerica tra i 500 e gli 800 Euro al mese (e fuori di Cuba chi non ce li ha ne fa a meno) ed in Europa valgono tra i 1.000 e i 2.000 Euro al mese a seconda dell’incidenza dell’affitto. Questo vuol dire che 250 milioni di latinoamericani e almeno 15 milioni di italiani non possono permettersi dei servizi di base che lo stato cubano offre gratuitamente. Sono servizi (e se avessimo il coraggio e tornassimo a chiamarli semplicemente “diritti”?) che sicuramente non possono sostituire il diritto di voto, così come si intende a Stoccolma, ma aiutano. Aiutano soprattutto a tenere la schiena dritta. Capisco e faccio mia l’obiezione sul diritto di voto ma capisco anche un proletario cubano che preferisce non rischiare, di perdere molti diritti in cambio di un diritto solo. E pazienza se non ha il diritto di comprare l’acqua da bere privatizzata dalla Suez.

I cubani stanno combattendo la battaglia delle idee giorno per giorno. Non l’hanno ancora vinta, ma almeno la combattono e possono essere orgogliosi di se stessi. Ed in questo combattere -non necessariamente vincere- la battaglia delle idee, sta una delle chiavi di lettura della permanenza della Rivoluzione a 17 anni dalla caduta del muro di Berlino. Gli italiani per cosa possono essere orgogliosi? Della vittoria dei mondiali? Di avere una democrazia così stabile che nessuno ha percepito il cambiamento tra destra e sinistra dopo le libere elezioni di aprile?


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Parole chiave: America Latina [1], Cuba [2], rivoluzione cubana [3], neoliberismo [4], diritti civili [5]