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Maurizio Chierici: Terrore in Venezuela

Beh, magistrale Maurizio, non c’è altro commento.
gc                              

chierici [1] Anni fa in Guatemala le truppe speciali hanno organizzato un massacro lasciando segni di guerriglia in un villaggio indigeno. Franco Cantucci, inviato del Tg1, si è accorto della messinscena e l’ ha denunciata. Nei paesi inquieti, affidarsi alle polizie per documentare un’inchiesta a volte é necessario ma può inquinare la testimonianza. Diventare, senza volerlo, giornalisti embedded è il rischio da calcolare con attenzione. Sfogliando il Corriere della Sera di ieri la bella foto di Luigi Balzelli mostra un po’ di gente in fila, braccia alzate contro un muro mentre qualcuno sta perquisendo. Malfattori sorpresi nel rancho ( favela ) Petare, < il più pericoloso di Caracas >. La polizia non deve aver spiegato quale sospetto ha fatto scattare l’azione e cosa è successo dopo.

Una volta a Rio de Janeiro, nell’anticamera di Roberto Marinho, un assistente dell’editore ha preteso che la polizia mi accompagnasse nella favela di Nova Iguassu: < Da soli non si può andare. Sarebbe un suicidio >. E un cambio di programma sgradito: alla sera dovevo cenare col padre della televisione brasiliana. La polizia mi ha accompagnato nel sagrato recintato da padre Chiera, prete italiano che quando calava il giorno accendeva un’ insegna che dava i brividi: qui non si uccidono bambini. Quando sono arrivato con due macchine di polizia si è meravigliato. < Torni domani. Meglio non fidarsi. Alla sera si tolgono la divisa e diventano giustizieri per conto dei commercianti derubati. Ecco perché i ragazzi passano la notte sotto la mia protezione >. Il giorno dopo sono risalito assieme al fotografo Danilo di Marco con un taxi che ha raddoppiato il prezzo e il prete finalmente ha parlato. Soli, in mezzo alla gente.

Ettore Mo è un giornalista straordinario. Si immerge nella realtà e la racconta come un romanzo. Ma quando la realtà la si frequenta occasionalmente, l’emozione può confondere questa realtà. Sul Corriere della Sera di ieri il suo viaggio< Nel Venezuela del terrore > fa sapere di una Caracas che da sempre vive col cuore in gola anche se qualcosa è cambiato, ma poco e male. Non conosco i nuovi numeri del Venezuela: i miei appunti si fermano alla visita di un anno fa e all’incontro con Roberto Giusti, editorialista de L’Universal, protagonista televisivo dall’ironia che scotta. Scotta Chavez e il suo governo. Vive nella zona rosa, attico che domina l’imbuto della capitale. Ha diretto l’ufficio stampa del presidente Andrés Carlos Pérez, rifugiato a Miami, problemi di corruzione. Giusti è osservatore di parte, ma trasparente, nessun scheletro nell’armadio e un’arguzia che sorride ai lettori. Non sopporta il < regime > e ogni giorno accende fuochi per contrastarne < il dominio >. Sulla violenza ha le sue idee ma anche statistiche che coincidono con i numeri raccolti da un anno all’altro nei viaggi in Venezuela. Nel 1998 ogni fine settimana Caracas contava 215 omicidi. Si sparava per rubare un paio di scarpe. L’anno scorso erano 137, la tragedia continua ma,perché, quando c’è odore di elezioni diventa una bandiera ? Seminare paura è la scelta politica usata di qua e di là dal mare: cifre incontrollabili sparse nel braccio di ferro degli oppositori contro i governi in carica. Pensiamo all’ ultima campagna vinta da Berlusconi.

Dieci anni fa nessuno scalava le stradine dei ranchos quando calava la sera. Educatori e volontari scendevano in città o si chiudevano dietro grate di ferro. Non è cambiato niente. L’anno scorso padre Jesus da Silva, uruguayano, non ha voluto che andassi a trovarlo al rancho La Valle. < Mi faccio portare in albergo, é più sicuro >. Ottant’anni e condivide la vita degli esclusi. La Valle è un quartiere segnato dalla luce rossa. Pericoloso. Stavo cercando di capire come e perché la Chiesa cattolica fosse in guerra con Chavez e incontro monsignor Aldo Fonti, vice segretario della Commissione episcopale, missionario diocesano arrivato dall’Italia nel 1977. In una residenza dalla dignità coloniale, a mezza costa di un’altura verdissima poco lontana dall’Università Cattolica, le finestre della stanza si aprivano su panorami molto diversi. In fondo alla valle un nuovo quartiere residenziale cresciuto attorno alla spianata dove Giovanni Paolo II aveva incontrato milioni di fedeli durante la visita a Caracas. La cappella ricorda il luogo dove ha celebrato messa. E’ diventata la chiesa di chi ha comperato appartamenti meraviglia mentre altri palazzi stanno crescendo. Dopo le preghiere, la speculazione.

Dall’altra parte della vallata baracche a perdita d’occhio sulla cresta di piccole montagne, rancho Calamita: < Da anni non entra la polizia >. Quando spunta il sole la comunità viene svegliata da due inni nazionali diversi: colombiano ed equadoregno. Si alzano due bandiere nei due quartieri separati da antica inimicizia. Li abitano profughi scappati dalle guerre civili e dalla disperazione dei senza niente. Facile attraversare frontiere spugnose che tagliano le foreste di confine. Clandestini dalla fine anni Ottanta, hanno ricreato la patria nella patria rifugio. Vivono come capita ed è facile indovinare come.
Allora non posso visitare un rancho ? Ce ne sarebbe uno, risponde il sociologo che scrive libri e mi guida nella ricerca: Petare è il meno proibito. Luce gialla. Dopo l’esperienza brasiliana non mi rivolgo alla polizia, ma insomma, ci penso. L’appuntamento é con padre Bruno Renaud, belga, teologo di Lovanio, da 40 anni in Venezuela. E’ stato vice rettore del seminario poi ha scelto di studiare da vicino la realtà degli stracci rabbiosi. < Devo farmi accompagnare da qualcuno ? >. < Perché ? >, la meraviglia. < Le insegno la strada >. Prendo il metro alla Sabana Grande. La ragazza dei biglietti ha fretta: < Passa. Hai più di sessant’anni. Viaggio gratis >. Lo sacrestia di Renaud è alla fine della salita. Bollente. Parliamo finché comincia il buio >. Mi accompagna chiacchierando alla stazione. Nell’angolo di una stradina, il neon di un negozio: < Golgota, le pompe funebri più signorili del barrio Petare >. Entriamo nella stanza delle bare. Sembra l’officina di un meccanico di periferia. In un angolo due grandi torte: cioccolato e panna: < Il rinfresco del dopo funerale. Tutto compreso nel prezzo >.

Forse i due amici del Corriere sono stati coinvolti nella dimostrazione di efficienza della polizia di chissà quale municipio senza simpatia per Chavez. Per evitare infortuni hanno scelto un rancho soft. Ma la commedia restava fiacca senza imporre giubbotti antiproiettile ai poveri giornalisti. Spaventare chi arriva da fuori è la trappola nella quale è caduto anche Raffaele Bonanni, segretario Cisl. Gli amici del Cvt, sindacato fondato da Carlos Ortega, lo hanno consigliato di dormire a Chacao < unico posto sicuro di Caracas >. E’ un municipio anti Chavez, quartiere di grande benessere. Irena Saenz, nuvola bionda di miss universo, ne è stata il sindaco molto amato nei cocktail attorno al campo dal golf. Ortega ha guidato il sindacato dei lavoratori del petrolio e si sono scoperte tangenti ed esportazioni di oro nero che non passava dogana: per 30 anni il 23 per cento del greggio venezuelano finiva non si sa dove e i miliardi li incassava non si sa chi. Più o meno il bilancio del Kuwait.

Ortega è apparso in Tv in un angolo del direttivo che proclamava il presidente degli imprenditori Carmona, nuovo capo di stato dopo il golpe che aveva provvisoriamente rovesciato Chavez. Chavez ritona, scappa in Costarica da dove riappare per guidare lo sciopero petrolifero che inginocchia il paese. Sparisce e viene pescato in un night. Mentre aspetta il processo evade misteriosamente da una carcere di massima sicurezza, eccolo in Perù dove Alan Garcia gli concede il secondo asilo politico. Anche Ortega mi aveva raccontato del < terrore che insanguina Caracas >. Lo raccontava quando il Corriere della Sera inaugurava la sua edizione venezuelana: giornale distribuito assieme alla Voce d’ Italia della famiglia Bafile. Marisa Bafile, redattore capo, è stata eletta alla camera nella scorsa legislatura. Alla fine del giorno, con Ferruccio De Bortoli ed Enzo Biagi, uscivano dal vecchio Hilton ( oggi Alba ) per andare a cena o guardare le librerie. Camminavamo senza trasalimenti non immaginando di sfidare gli agguati di Bagdad.

Appena Chavez si consolida, rumorosamente, discorsi asfissianti e limature senza dialogo dei grandi interessi, scoppia su giornali e Tv la febbre della paura. Che c’è ed è reale, ma non diversa dagli anni prima. Chavez vuole cambiare la costituzione per assicurarsi la rielezione a vita: imbarazzante anche per chi lo sostiene e non lo vota. Un’ora e mezza di aereo da Caracas, Uribe, presidente della Colombia fa la stessa cosa e nessuno trasale. 73 suoi deputati condannati, tre ministri hanno dovuto lasciare travolti dall’amicizia coi paramilitari. Quattro milioni di profughi interni incalzati dalle Farc, esercito e paramilitari, è il disastro nascosto che prima o poi i grandi giornali dovranno pur raccontare. E raccontare di Bogotà dove ogni giorno si contano 60,70, 80 rapimenti. A volte brevi: poche ore e arriva il riscatto. A volte gli ostaggi non tornano. Violenza quotidiana ma il silenzio continua. A Caracas Teodoro Petkoff, intellettuale e politico, ministro del socialcristiano Caldera quando riemerge dalle avventure della guerriglia anni ‘60, oggi si batte contro Chavez. Non ne accetta il semplicismo rumoroso. Lo avversa perché ha diviso la sinistra: < una parte ostaggio dell’opposizione infiltrata dai protagonisti della violenza, l’altra prigioniera di un governo che si riassume in una sola persona: decisioni inappellabili del presidente >.

La violenza – ripete- non è una tragedia venezuelana. E’ la tragedia di un continente dove 220 milioni di persone mangiano con due dollari al giorno. Dove manca la giustizia sociale manca la democrazia ed esplode la rabbia di chi deve arrangiarsi >. ( Nei giorni di ferragosto a Rio de Janeiro sono stati contati 27 morti in una notte di scontri tra polizia e boss delle favelas. Ma l’organizzazione degli stati americani ha fatto sapere che Rio non è la città più insanguinata del continente latino. Nel Salvador i morti per arma da fuoco hanno superato il rapporto vittime- popolazione dell’Iraq. 63 ogni mille persone. E nessuno va a vedere perché )