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Tabaré Vázquez in Uruguay. Con Bolivia e Brasile tripletta della sinistra in America latina

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La vittoria di Tabaré Vázquez in Uruguay è un risultato di grande importanza, che dà continuità ai governi di centro-sinistra in America latina che, in questa primavera australe, ha riconfermato il consenso popolare in Brasile, in Bolivia e sulla sponda orientale del Río de la Plata ma merita di essere analizzata nelle sue sfaccettature. Il discredito nel quale versa il neoliberismo nella regione continua ad essere radicale e il credito per le politiche di inclusione sociale che i governi integrazionisti hanno realizzato in questi anni resta ampio, sia pure in una dialettica che in sistemi politici presidenziali tende ad essere bipolare almeno nelle scelte tra candidati.

Tabaré Vázquez, un oncologo solidale di 74 anni, presidente 2005-2010, ha raccolto un comodissimo 53,6% contro il 41,1% di Luís Lacalle Pou. Se il 40% o poco più sembra essere il tetto attuale delle destre nel paese e in buona parte del Continente va rilevato quell’insolito iato di un 5,3% di orientali che si sono recati alle urne in un ballottaggio senza scegliere né l’opposizione di destra, né confermando il candidato del Frente Amplio che torna alla presidenza dopo i cinque anni di Mujíca. Non è una congettura pensare che quel 5,3%, senza desiderare il salto nel buio neoliberale, ha voluto così esprimere la propria stanchezza verso un’esperienza che a livello nazionale dura da 10 anni e a Montevideo da un quarto di secolo.

In Uruguay e in America latina, come chi scrive sottolinea da almeno tre lustri, non c’è né il gulag tropicale descritto dal mainstream né il sol dell’avvenire, raccontato da alcuni. Pepe Mujíca in questi anni non è stato il Re taumaturgo immaginato da troppi in Europa, e proprio con il ritorno alla presidenza di Tabaré si dà ancora un giro di giostra ad un ciclo che avrebbe dovuto chiudersi con la presidenza Mujíca, quello degli uomini che lottarono contro la dittatura e che costruirono dall’85 in avanti una democrazia nella quale il superamento dei partiti tradizionali e la centralità della sinistra erano alla base.

Di quella storia Tabaré resta di gran lunga la figura più influente e la 90 (il Partito socialista) la lista più radicata nel paese. Fu lui che strappò per la prima volta Montevideo alle destre e fu naturalmente lui il leader che condusse il popolo orientale al governo. Non è tanto lo slittamento graduale ma evidente dell’uomo verso il centro politico, soprattutto per i temi etici, a essere il fatto rilevante. Lui non si è voluto far da parte, e considera il secondo mandato una sorta di [meritato] Oscar alla carriera, ma il Frente Amplio, fucina da 40 anni delle migliori intelligenze del paese, non ha saputo fare quel salto generazionale oramai improcrastinabile oltre questi gloriosi ma ancora influenti 70-80enni. Costanza Moreira, la sociologa candidata da parti della sinistra interna nelle primarie, fu solo una sorta di “opposizione del presidente” che non pensò mai veramente di vincere.

Con tutte le difficoltà e le contraddizioni, la civiltà della democrazia orientale e la forza delle società e in particolare delle classi popolari latinoamericane nella critica al modello economico dominante, restano un faro al tempo della crisi globale. Tabaré è un politico talmente navigato, rispettato e amato da mettersi ancora in un taschino il 41enne Lacalle Pou, come il voto di ieri ha dimostrato. Era, per l’ennesima volta, l’uomo giusto al posto giusto. Tuttavia il pericolo che il suo governo nasca senza spinta propulsiva c’è. Perfino quel «festejen uruguayos, festejen» che dieci anni fa mise i brividi, ripetuto oggi lascia interdetti. La mistica frentista come ripetizione di una storia gloriosa appare bisognosa di aggiornamenti.