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Renzi e il ‘metodo Boffo’ evocato da Bersani

Riforme: Bersani, Pd non lasci ultima parola a nessuno [1]

Nel citare il “metodo Boffo” Pieluigi Bersani sbaglia e non solo perché presta il fianco ad una rappresentazione di un Partito Democratico sull’orlo di un baratro che non c’è. Sbaglia perché svilisce la denuncia di un’infamia che in Italia è stato un salto di qualità goebblesiano anche rispetto alla “delegittimazione dell’avversario” che ben descrive tra gli altri Noam Chomsky. Quel metodo consisteva e consiste in martellanti campagne di stampa tese a delegittimare l’avversario (Romano Prodi, Gianfranco Fini, Antonio Di Pietro, il povero Enzo Baldoni e troppi altri) non sul piano politico ma sul piano della rispettabilità personale usando il venticello della calunnia, con accuse inventate o indimostrate o straordinariamente esagerate (la casa di Montecarlo) o che toccano la sfera privata e che prendono il nome dal giornalista cattolico Dino Boffo, del quale si metteva in piazza la presunta omosessualità per delegittimarne le critiche all’allora capo del governo Silvio Berlusconi.

Alcune forme della comunicazione renziana sono senz’altro fastidiosamente irridenti, aggressive e tendenti a spostare il dibattito dai fatti alle percezioni. Nulla di nuovo. In quella ripetizione senza fine della dicotomia futuro-passato, riproposta in varie salse e dove il punto di vista di Matteo Renzi non è il più ragionevole ma quello meglio rappresentato, c’è una polemica politica che diventa pura propaganda, ma non c’è la privazione di dignità evocata da Bersani.

Questo, piccato nel personale da un declino politico che considera ingiusto e precoce fino a sentirsene leso nella dignità, è politico troppo accorto e troppo serio per non capire che il lupo non possa essere evocato troppe volte senza perdere la sua carica paralizzante. Deve inoltre ricordare che il metodo Boffo è stato la prassi delegittimante usata infinite volte dai media di un avversario politico con il quale Bersani forse non andava a cena ma che non ha nemmeno battuto e dal quale, nel paese reale, la sua ‘ditta’ è stata surclassata sul piano della comunicazione da ben prima che comparisse sulla scena l’ex-sindaco di Firenze. Rispetto al sempre sterilmente tagliente Massimo D’Alema, Pierluigi Bersani resta più empatico e meglio rappresenta quelle che un tempo si sarebbero dette “le ragioni del lavoro” rispetto ad una liberalizzazione dei rapporti di produzione che forse è nelle cose, ma non per questo è il migliore dei mondi possibili. Ma questo è il piano politico, il telone sullo sfondo del quale meno capiscono i militanti e gli elettori meglio appare essere per tutti. Portare sul proscenio l’evocazione a sproposito del metodo Boffo non è solo inesatto o esagerato ma è anche una dimostrazione di debolezza politica che va ben oltre i numeri in direzione o nel paese. Rappresenta il non volere o non saper rilanciare -sul piano politico- una battaglia per dimostrare che in quella dicotomia passato-futuro, conservazione-progresso le cose stiano diversamente da come le rappresentano.