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L’omicidio mirato di Raúl Reyes e la crisi tra Colombia, Ecuador e Venezuela

ecuador_correa220_2007 [1] Quello di Raúl Reyes, il numero 2 delle FARC, ucciso in territorio ecuadoriano dall’esercito colombiano, è nella sostanza un omicidio mirato dello stesso tipo di quelli commessi dal Mossad e da Tsahal in Cisgiordania e a Gaza. Tra le FARC e lo Stato colombiano esiste da decenni uno stato di belligeranza che rende legittimo da parte dell’esercito l’uso della forza contro la guerriglia, ma la morte di Raúl Reyes e di altri 16 guerriglieri è ingiustificabile per due motivi:

1) perché avviene in territorio ecuadoriano, in flagrante violazione del diritto internazionale.

2) perché avviene in appoggio alla decisione del governo colombiano di far fallire ogni dialogo con la guerriglia dopo la liberazione unilaterale di quattro sequestrati sotto i buoni uffici del presidente venezuelano Hugo Chávez.

Così l’azione dell’esercito colombiano è per il diritto un attacco contro Quito ma politicamente è un attacco contro Caracas, giustificando la dura reazione del governo bolivariano, oltre che di quello di Rafael Correa (nella foto), che hanno ritirato i rispettivi ambasciatori e rinforzato le rispettive frontiere con la Colombia.

Álvaro Uribe (e dietro di lui Washington), temendo di vedersi messo in un angolo da parte dell’azione diplomatica del Venezuela e degli altri governi integrazionisti latinoamericani, ha replicato ad un’azione di pace con un’azione di guerra.

Ma al di là del giudizio di merito, l’azione di forza ridà l’iniziativa a Uribe, sostiene il partito della guerra senza quartiere, il suo, e può far scrivere nell’editoriale di El Tiempo [2] di oggi che la morte di Raúl Reyes, primo caduta in battaglia (in realtà ucciso nel sonno, con l’aiuto di strumenti tecnologici di una potenza straniera, come ha accusato Correa) di un membro del Segretariato delle FARC, sia “l’inizio della fine” per questa organizzazione.

E’ evidente che, se l’iniziativa dovesse rimanere nelle mani di Uribe, non sarebbe l’inizio della fine ma “la fine” tout court per Ingrid Betancourt e gli altri sequestrati. Lo ha confermato la famiglia Betancourt che una volta di più ha attaccato duramente il presidente colombiano, definendo l’azione che ha portato alla morte di Reyes “un sabotaggio da parte di Uribe per impedire la liberazione di Ingrid Betancourt e degli altri ostaggi”.

Ancora più dura è stata la senatrice colombiana Piedad Cordoba che, ricordando che Raúl Reyes era l’uomo della trattativa, ha definito l’azione ordinata da Uribe come “un gesto premeditato contro la pace”.

La comunità internazionale deve continuare a far pesare su Bogotà (e Washington) la responsabilità politica di questa scelta. Da anni, perfino da prima dell’arrivo al governo di Caracas dei bolivariani, gli Stati Uniti hanno puntato sul Plan Colombia per destabilizzare il continente. Oggi quell’investimento (miliardi di dollari l’anno) può fruttare per destabilizzare una regione e paesi come il Venezuela, l’Ecuador, la Bolivia e il Brasile stesso, che non rispondono più come Washington vorrebbe.

Per evitare tale destabilizzazione, che rende possibili veri e propri conflitti armati nel continente più pacifico del mondo, è necessario, in queste ore non facili, mantenere il sangue freddo e continuare ad appoggiare il processo di pace in Colombia.

Quello stesso processo di pace che i governi integrazionisti, che oggi temono per la sicurezza delle loro frontiere, violabile da una Colombia armata fino ai denti dagli Stati Uniti, stanno portando avanti. Quello stesso processo di pace che, secondo la stessa famiglia Betancourt e la senatrice Piedad Cordoba, Álvaro Uribe ha voluto sabotare uccidendo Reyes. Quello stesso processo di pace che, laddove fallisse, incendierebbe l’intera regione.