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Ritratto di Anabel Hernandez

Ho incontrato Anabel Hernandez a Roma, nella sede dell’Associazione Libera (un ex palazzo in pieno centro storico, confiscato alla banda della Magliana). E’ una donna giovane e minuta. Ha uno sguardo dolce e fiero; la voce di una persona determinata e forte. Intervistandola ho avuto l’impressione di fare una chiacchierata tra amiche. Le ho chiesto com’era nato il suo ultimo libro, un’inchiesta in cui denuncia le connivenze tra narcotrafficanti, polizia e Governo messicani, pubblicato a dicembre 2010. Avevo letto che voleva raccontare la storia di Joaquin Guzmàn Loera, detto “El Chapo”. In effetti Anabel me lo conferma: nel 2005 aveva iniziato una ricerca visitando, per conto dell’Unicef, una comunità rurale del c.d. “Triangolo dorato” (una regione che comprende gli Stati di Sinalca, Durango e Chihuahua, n.d.r.), perché le avevano segnalato che i bambini erano costretti a coltivare la droga. Circostanza che, poi, aveva riscontrato sul posto: tutte le famiglie lì coltivavano marjuana ed oppio. El Chapo è nato in questa zona e, negli ultimi 5 anni, attraverso un capillare sistema di corruzione che ha coinvolto funzionari pubblici, narcotrafficanti e grandi imprenditori, che riciclano e “lavano” il denaro di provenienza illecita, è diventato uno degli uomini più potenti del Messico. Fino a gennaio 2001 era recluso in un carcere di massima sicurezza da dove è riuscito ad evadere. Senza l’aiuto del Governo e dei grandi imprenditori – sostiene la Hernandez – El Chapo non sarebbe nulla. Per il libro ha utilizzato fonti diverse, come le agenzie statunitensi, i verbali d’indagini di polizia, molte interviste a narcotrafficanti. Le fonti militari e quelle dei narcotrafficanti che ha incontrato ed intervistato personalmente sono state le più importanti: parlando direttamente coi narcos si riesce a comprendere cosa c’è dentro le loro teste. Nessuno vuole uscire dal giro. Mi sembra terribile ma Anabel assicura che è vero ed aggiunge che questi uomini non hanno caratteristiche umane né alcun rispetto per la vita; che l’unico loro interesse sono il potere ed i soldi; che si sentono delle divinità in terra, con diritto di vita o di morte su tutti; che il cinismo delle loro storie di corruzione è profondamente triste. La rivelazione più importante che la giornalista messicana mi dice di essere riuscita a fare attraverso i documenti analizzati è che parte dell’attuale Governo messicano è al servizio dei cartelli dei narcotrafficanti, a partire da Garcìa Luna e dall’ex Presidente della Repubblica fino a Generali e ad alti funzionari. E poi aggiunge quale idea si è fatta di Garcìa Luna (l’attuale Segretario per la Sicurezza pubblica in Messico n.d.r.) sulla base delle risultanze della sua inchiesta:”Anche se è giovane, dice, lui appartiene alla categoria della vecchia polizia corrotta del Messico, lì è stato creato e si è formato. Lui ed il suo entourage hanno protetto sequestratori e narcotrafficanti in Messico. Ho visto le prove di crimini orribili perpetrati col supporto della polizia”. Parliamo anche del fatto che Garcìa Luna ha dichiarato di averle offerto protezione che lei ha rifiutato; mentre lei sostiene che non le è mai stata offerta. Anabel conferma che quando Garcìa Luna le ha offerto sicurezza non era affatto vero e che l’ha dichiarato nel momento in cui la Commissione dei diritti umani in Messico ha cominciato a proteggerla di più perché aveva denunciato le minacce di morte ricevute da Luna in occasione della pubblicazione del suo libro. Ed aggiunge che se Garcìa Luna le offrisse protezione formalmente – cosa che non accadrebbe mai, a suo parere – lei non l’accetterebbe perché la considererebbe una provocazione. Poi parliamo delle minacce che ha denunciato e che si sono concretizzate in azioni fisiche contro la sua persona, anche se, per fortuna, non sono andate a buon fine. All’inizio di dicembre 2010 l’avevano informata che volevano ucciderla. A metà gennaio, durante una riunione familiare in casa, si è verificato un incidente molto grave: era andata via da poco più di tre minuti quando degli uomini sono entrati nella sua casa armati. C’erano bambini, donne, tutta la sua famiglia. Dice di non poter dire altro, non per timore, ma perché c’è un’indagine in corso. Il padre di questa giornalista coraggiosa è stato assassinato nel 2000; in quel periodo lei ha iniziato a fare inchieste sul Governo del cambiamento di Vicente Fox che hanno portato allo scandalo c.d. “toalha gate” fino alle dimissioni di Carlos Rojas Magnon, Responsabile delle spese del Presidente. A chi maliziosamente mette in relazione queste due circostanze la Hernandez risponde che le sue investigazioni su narcotrafficanti e connivenze col Governo sono iniziate nel 2005, diversi anni dopo questo grave lutto familiare, e che l’occasione del loro inizio è stata la sua visita alla comunità rurale nel “Triangolo dorato” per conto dell’Unicef. Suo padre è stato sequestrato e poi assassinato all’inizio del Governo Fox. Era un imprenditore ed i suoi sequestratori facevano parte di una delle migliaia di bande che in Messico fanno sequestri per estorsione. Non hanno mai saputo chi fossero. Poi mi guarda negli occhi ad aggiunge che, però, come donna e come essere umano, non può negare che l’assassinio del padre sia stato decisivo per determinarla a combattere la corruzione nel suo paese. Ci chiediamo di cosa abbia bisogno oggi il Messico per spezzare questa catena di connivenze tra narcotrafficanti, polizia, grandi imprenditori e politica. Lei sostiene che sia necessario che si comincino a denunciare tutti i funzionari pubblici e gli imprenditori coinvolti in affari coi narcos, che solo quando saranno in carcere la corruzione potrà diminuire; che finché sono loro i signori del narcotraffico, le cose non potranno cambiare. Poi le chiedo perché ha deciso di combattere la corruzione nel suo paese, visto che ciò espone lei e la sua famiglia a rischi molto grandi. Risponde che è una donna comune, e che non c’è niente di eccezionale in lei: è una single con due figli, non ha padre, non è ricca, non è collegata a politici, quindi è anche molto vulnerabile. Ed aggiunge che se la gente vede che una donna come lei, così vulnerabile, può dire la verità, si fa coraggio e comincia a chiedersi:”Noi che possiamo fare?” ed è quello di cui ha bisogno il Messico. E’ convinta che questo piccolo esempio di ciò che sta facendo lei da sé non serva, ma che, collegato a quel che possono fare tante altre persone, possa produrre un cambiamento; il che non piace al Governo ma serve ai messicani. E conclude:”Perché lo faccio? Perché ho deciso di non lasciare a queste persone la libertà di fare quello che fanno”.
di Simona Bottoni