Paola Magnarelli: il senso del 25 aprile

Con estrema partecipazione pubblico il testo -alto- dell’intervento di Paola Magnarelli (foto), prof. ordinario di Storia Contemporanea, nelle celebrazioni per il 25 aprile di ieri a Macerata (gc).

Cari concittadini, gentili autorità, il compito che mi è stato affidato è molto arduo e onorevole, e ne sento tutta la responsabilità. Sento anche che, considerando la natura della mia professione, chi mi ha invitata non desidera da me un comizio – e tuttavia certo nemmeno una lezione, ma forse una riflessione sulla necessità di conservarci all’altezza del nostro passato, che la Resistenza nelle sue varie forme ed esplicitazioni, il 25 aprile, la liberazione, il ritorno alla democrazia, l’approvazione della Costituzione del ’48, rappresenta così gloriosamente e direi limpidamente.

Voglio farla, allora, questa riflessione, che da un così impegnativo ieri ci porti all’oggi, anche se sono consapevole che gli storici sono più ferrati sul passato che sul presente: casomai, si potrà partire da ciò che tanti grandi storici ci hanno insegnato, e cioè che noi poniamo sempre al passato le domande che provengono dal nostro presente. E mi scuso in anticipo se nelle mie parole vi sarà, forse anche troppo spesso, qualche riferimento personale.

E dunque, in questa ottica di tentativo di comprensione e di superamento di un presente oscuro e incerto che ci sovrasta, nel quale  una parte non piccola del discorso pubblico oscilla tra una (vasta) indifferenza ed una sempre più evidente ostilità nei confronti delle radici stesse della nostra democrazia, il compito mi è parso ancora più alto e più grande. Voglio qui ricordare, anche a lenire lo sconforto che può cogliere la mia generazione, ormai anziana, di fronte al vuoto che sembra spalancarlesi davanti, il conforto che invece ci procurano, al contempo invitandoci alla riflessione, alla vigilanza e all’impegno, le parole pubbliche alte e chiare sul significato e sui nodi fondamentali della nostra storia nazionale come il Risorgimento e la Resistenza, e la Costituzione che ne deriva e sul loro ineludibile riflesso sull’oggi, che in ogni occasione pronuncia il Presidente della Repubblica. Credo di interpretare il pensiero di tutti inviandogli da questa piazza un saluto deferente e cordiale, ringraziandolo per tutto quello che fa a beneficio della nostra patria.

In modo particolare, poi, il compito di parlare in questa piazza è certo difficile, ma anche appagante per chi, come me, appartiene a una generazione cresciuta nella certezza dei valori della Resistenza come fondamento della nostra unione nazionale; e per chi, inoltre, abbia fra i suoi compiti sia generazionali che professionali quello di educare i giovani alla comprensione della storia, e perciò alla consapevolezza dei fondamenti della propria cittadinanza.

Si tratta di due mandati educativi particolarmente delicati: quello generazionale, che insiste sulle responsabilità di tramandare la memoria anche nella prospettiva, dolorosa ma inevitabile, della progressiva perdita dei testimoni diretti;

e quello professionale, che pone di fronte all’ulteriore compito di mediare la memoria e di filtrarne in modo rigoroso gli insegnamenti.

Si dice spesso – è quasi un luogo comune – che le giovani generazioni sarebbero immerse nel disinteresse e nell’oblio rispetto alla storia recente e alla stessa fondazione della nostra collettività nazionale. Se così fosse (e in qualche misura bisogna ammettere che lo è), occorrerebbe meditare innanzitutto sulle nostre responsabilità. Ma anche noi, gli adulti, sembriamo spesso coinvolti in un processo di omologazione (ricordate le parole profetiche di P.P.Pasolini, che a suo tempo furono accolte persino con fastidio?) all’interno del quale il ricordo assume tutt’al più caratteri di intermittenza, di ritorno sporadico a un senso di appartenenza collettiva che non ha più alcuna centralità nella nostra vita quotidiana, e che spesso, anzi, si colora di inquietanti e meschine istanze localistiche, campanilistiche, triviali per non dire tribali. Viviamo, ormai, quasi senza “princìpi”, senza il sostegno di un basamento etico e civile, e qualche volta persino ce ne vantiamo.

Del resto, chi ancora intende la partecipazione, l’impegno civile, il mandato educativo con una forte tensione morale e una continua attenzione alla propria dignità di persona e di professore, è invece, e insistentemente, messo in discussione da chi quella dignità dovrebbe, se non apprezzarla, tutelarla: e sta allora a noi tutti, giovani e adulti, rispondere agli attacchi più sguaiati  con serietà e passione: e questo si fa anche studiando la storia e traendone spunti di riflessione per il presente. Mi sembra opportuno ricorrere a una parola chiave oggi troppo spesso dimenticata: complessità: un popolo che rinunciasse alla sua storia perderebbe anche l’indispensabile diritto democratico alla complessità, alla interpretazione “non unica” della realtà. Infatti, un’ottica oggi sempre più dimentica della naturale complessità del reale, il passato è diventato un luogo di lotta ideologica semplificato ed oscuro e la storia nazionale un campo di battaglia (persino con il Risorgimento e l’unità nazionale che celebriamo quest’anno – e su cui torneremo – ci si è insistentemente provato), nel quale si perde anche il gusto, direi il lusso, di una costante revisione delle interpretazioni: una revisione che non è e non può essere, però, relativismo, ma deve muovere da un saldo quadro di riferimento etico e civile.

Per intenderci: nulla ha a che vedere colla revisione e la ricomprensione del passato la inconcepibile proposta di abolire il divieto costituzionale di ricostituire il partito fascista, che si inserisce invece nella tendenza variamente espressa (intitolazione di vie a gerarchi fascisti, eliminazione dagli statuti comunali, provinciali, regionali, di  ogni riferimento all’antifascismo, ma naturalmente si potrebbe continuare) tendenza ad epurare dalla storia nazionale gli unici elementi contemporanei di identità che essa veramente possieda, facendola entrare in quella specie di “supermarket della storia” nel quale tutto compare sugli asettici scaffali della memoria, e dove ciascuno può “acquistare” quel che più gli conviene. È la vecchia storia, periodicamente risorgente, dei professori  che “inculcano” (bruttissima parola, tra l’altro) a masse di studenti inermi le loro idee. Ed è, ancor più profondamente, la volontà si ricacciare in un ghetto ideologizzato e perciò partigiano e screditato l’antitifascismo, e cioè precisamente il principio su cui l’Italia si è ricostruita dopo il 1945; l’antifascismo è il valore essenziale della nostra convivenza nazionale, espresso in primo luogo nella nostra Costituzione repubblicana. Non dobbiamo dimenticarlo mai, e se necessario ribadirlo, perché senza una lucida, costante adesione ai suoi principi rischiamo di perdere i connotati stessi della nostra identità nazionale.

Non si comprende poi – e difatti gli altri principali paesi europei lo sanno, lo dicono, e lo insegnano nelle scuole, anche se le cattive prove date recentemente sul tema concreto dell’immigrazione dimostrano la distanza che esiste tra le parole e i fatti –  come l’Europa unita possa avere senso se, al di là delle relazioni economiche e monetarie, non se ne sottolinea il potente collante identitario costituito dall’antifascismo, che la salvò dalla distruzione – salvando con ciò, all’interno del loro profilo secolare, la dignità e la cultura tedesche, italiane, francesi e così via – e tuttora ne rappresenta il tratto culturale più distintivo, in continuità diretta coll’affermarsi di: libero pensiero, eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge,  divisione e autonomia dei poteri dello Stato, democrazia parlamentare, pari dignità di popoli e sessi senza alcuna distinzione di razza, lingua, religione, -sesso appunto–  e cioè con tutto ciò in cui comunemente riconosciamo l’identità europea contemporanea, e per la cui riconquista si sono battuti gli uomini e le donne della Resistenza.

Riflettendo su un quadro severo di crisi materiale e morale, che non induce all’ottimismo – se non, forse, a quello “della volontà” – ho volto lo sguardo ad un passato meno recente rispetto a quello che stiamo oggi commemorando: un passato a sua volta diffusamente e degnamente ricordato (un grazie, anche per questo, al presidente Napolitano, che ci ha indirizzati e spronati) in questo anno centocinquantenario dell’unità italiana. L’entusiasmo riservato dalla popolazione italiana a questo anniversario, anzi, se non si rivelerà troppo episodico ma saprà invece indurre a  una presa di coscienza e di responsabilità, è uno dei pochi motivi di speranza nel nostro comune futuro.

Non credo che questo pensiero al Risorgimento (al “primo” Risorgimento se vogliamo tornare alla ormai antica formula retorica della Resistenza come “secondo Risorgimento”) si materializzi per mera deformazione professionale; nella spinta morale, nell’azione di uomini e donne di 150 e poi 70 anni fa  c’erano infatti tante ragioni che li accomunano.

Vorrei presentarvi allora – questa sì, magari, è deformazione professionale – alcuni testi a confronto. Eccoli.

– Il regime democratico ha per regola l’eguaglianza, la libertà e la fratellanza […]La Repubblica colle leggi e colle istituzioni promuove il miglioramento delle condizioni morali e materiali di tutti i cittadini […]La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli; rispetta ogni nazionalità… (Costituzione della Repubblica Romana, giugno 1849, dai Principi fondamentali. La Costituzione, dopo appassionato dibattito, fu solennemente approvata l’ultimo giorno di vita della Repubblica mazziniana, quando già i Francesi assedianti stavano entrando nella città).

– È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana […] (Costituzione della Repubblica Italiana, gennaio 1948, art. 3. La Costituzione fu il frutto di un appassionato lavoro di un’assemblea costituente eletta a suffragio universale nel ’46, e composta da esponenti di tutti i partiti antifascisti)

– Carissima moglie…Sono le ultime parole dell’infelice tuo Ciro…Vivi ai figli e fa’ loro anche da padre; ne hai tutti i requisiti… Pensa ai figli e in essi continua a vedere anche il loro genitore; e quando saranno adulti dà loro a conoscere quanto io  amavo la patria…Non ti spaventi il pensiero dell’immatura mia fine…Non lasciarti opprimere dal cordoglio: tutti dobbiamo quaggiù morire… (Ultima lettera di Ciro Menotti alla moglie Cecchina, 26 maggio 1831. Menotti, commerciante di Carpi, aveva al momento della condanna a morte 33 anni. Fu impiccato dopo un processo sommario insieme ad altri. Questa lettera non fu mai consegnata alla moglie, e fu ritrovata dal governo rivoluzionario modenese solo nel 1848, quando la destinataria non c’era più).

– Tu sai perché io muoio. Tienilo sempre presente e fallo sempre presente a tutti, specialmente alla nostra bambina…Non devi piangere per la mia fine: io non ho avuto un attimo di rammarico: vanne a fronte alta…Educa la bambina come lo puoi soltanto tu: avrai in lei tutto l’appoggio morale e spirituale che non avrai più in me… (Ultima lettera di Paolo Braccini – nome di battaglia “Verdi” – alla moglie che lui chiama “Cocca”, 3 aprile 1944. Braccini, nato a Viterbo, era professore di zootecnia nell’Università di Torino e aveva 36 anni. Era membro del partito d’Azione clandestino. Fu fucilato insieme a molti altri da militi della GNR (quindi fascisti italiani) al poligono del Martinetto, a Torino, il 5 aprile 1944)

– Noi dobbiamo morire per chiudere con serietà il Quarantotto; affinché il nostro esempio sia efficace, dobbiamo morire (lettera di Luciano Manara a Fanny Bonacina Spini, 11 giugno 1849. Manara era ufficiale dei bersaglieri, aveva partecipato alle 5 giornate e alla 1a guerra d’indipendenza. Aveva 24 anni.  Morì nella difesa della Repubblica Romana pochi giorni dopo aver scritto quelle parole. Il suo corpo giaceva vicino a quello di Andres Aguyar, di Montevideo, nato schiavo,  detto “il moro di Garibaldi” per il colore della sua pelle, che seguiva il generale come un’ombra ed era stato promosso tenente per il suo valore sul campo di battaglia).

– Mamma, muoio fucilato per la mia idea. Non vergognarti di tuo figlio, ma sii fiera di lui…il mio sangue non si verserà invano e l’Italia sarà di nuovo grande… (ultima lettera di Achille Barilatti alla madre, 23 marzo 1944. Maceratese, studente di 23 anni, ufficiale di artiglieria, si era unito ai partigiani e su designazione del comandante Nicolò – Augusto Pantanetti – comandava il distaccamento di Montalto. Dopo la strage del 22 marzo in cui erano morti 30 giovani da lui guidati, fu interrogato da un ufficiale tedesco e uno fascista, ed essendosi rifiutato di aderire alla RSI fu fucilato senza processo alle sei e mezzo del pomeriggio del 23 marzo contro la cinta del cimitero di Muccia).

Parole tutte alte, altissime pur nella loro semplicità, e soprattutto parole consonanti: ciò che le ispira in entrambi i casi è ciò che possiamo senza ombra di retorica chiamare amor di patria. Una patria che, centocinquanta e poi quasi settanta anni fa, era lacerata e divisa.

Ciò che accomuna i destini di questi giovani – perché erano tutti giovanissimi – è anche l’aver compiuto una scelta – così, significativamente, Claudio Pavone intitola il primo capitolo del suo fondamentale studio sulla Resistenza italiana – una scelta difficile, pericolosa, spesso non sorretta da una preparazione adeguata e maturata in fretta, ma comunque una scelta profondamente politica, cioè volta al bene comune;

una scelta che si potrebbe anche definire – con le parole di un altro storico, Giovanni De Luna – di tipo esistenziale: e cioè profondamente basata sulla riflessione individuale, sulla ripulsa morale nei confronti di regimi illiberali; motivata da un’aspirazione all’unità della nazione, alla libertà, alla fratellanza, alla difesa dei deboli e degli oppressi; e profondamente rivolta al fine, egualmente morale, di difendere e ricostruire (anzi, costruire…) la patria. Vorrei ricordare che in questa opera di costruzione e ricostruzione entrambe le generazioni ricordate consideravano centrale, strategico il ruolo della scuola pubblica, cui dedicarono passione, e investimenti finanziari e intellettuali, nella convinzione che un popolo progredisce anche attraverso l’acquisizione di una base culturale comune.

Quelle persone, in momenti diversi, si assunsero le proprie responsabilità, colsero l’occasione che la storia presentava loro e collaborarono alla liberazione e – in prospettiva – alla ricostruzione del nostro paese.

Essere consapevoli di se stessi, vivere (e morire) con dignità, difendere la democrazia e la libertà della patria. Se oggi questa difesa – pur sempre necessaria – non assume più i caratteri drammatici, anzi tragici, di un più o meno lontano passato, lo dobbiamo a loro.

E non è dunque necessario riflettere sul loro esempio, riprendere in mano la nostra vita, impegnarci maggiormente di quanto non abbiamo fatto sinora per il bene comune? Non è indispensabile agire rettamente, consapevolmente, senza egoismi e partigianerie? Non dobbiamo sforzarci di essere migliori per ritrovare, insieme, un’Italia migliore? Non dobbiamo sforzarci di difenderla, questa nostra Italia nata dalla Resistenza ma anche dal Risorgimento,  con le armi pacifiche fornite dalla democrazia?

Questo è il mandato che quel passato ci consegna, cari concittadini. Cerchiamo di esserne degni.

W l’Italia unita. W la Repubblica. W la Costituzione!

Paola Magnarelli