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Lula a Teheran. La giocata del global player brasiliano

foto_mat_24892 [1] Il Brasile di Lula, inserendosi a Teheran nel ginepraio mediorientale, gioca da attore globale. C’entra poco l’insistere sui diritti umani verso il pur repellente regime di Ahmedinejad e perfino il merito del nucleare iraniano. In ballo vi è un presunto diritto occidentale ad isolare stati canaglia veri o presunti rispetto all’agire persiano da potenza regionale dal Libano all’Oceano indiano.

È uno strumento, quello dell’isolamento, particolarmente inadeguato nella nostra epoca post-unipolare dove molteplici attori, l’Iran stesso, ovviamente Cina, India e Russia, ma anche Turchia e per quel che ci interessa il Brasile, si aggregano, fanno diplomazia e affari senza chiedere permesso a Washington o Londra o Bruxelles.

È la fine della pretesa occidentale di considerare il resto del mondo una propria periferia. Per anni la [non] soluzione al problema iraniano era considerata esclusiva del circolo del G6, ovvero gli occidentali [meno l’Italia] più Russia e Cina. Invece la soluzione potrebbe essere venuta dall’azione congiunta di Turchia e Brasile. “È il multilateralismo, bellezza”, direbbe Bill Clinton ai commentatori mainstream che in queste ore si esercitano tra lo scetticismo e il minimizzare l’accordo raggiunto da Lula e che da oggi molti attori si impegneranno a boicottare.

La costanza con la quale le classi dirigenti brasiliane hanno costruito lo status di attore globale (dire “grande potenza” è riduttivo e non calzante per un paese pacifico come il Brasile) è un fatto storico dall’epoca di Getulio Vargas. Non è un caso che il dirigente nazionalista brasiliano, vicino per epoche e indirizzi a Lázaro Cárdenas, Juan Domingo Perón e l’egiziano Nasser, fu rovesciato quasi contemporaneamente al persiano Mohamed Mossadeq nei primi anni ’50 vittima dell’intervento degli Stati Uniti e delle “sette sorelle”. Tuttavia anche successivamente, i governi conservatori brasiliani mantennero una diplomazia non allineata: ignorando spesso l’embargo contro Cuba, appoggiando l’autodeterminazione di Timor Est, Palestina e soprattutto Angola. In questo caso svolsero in diplomazia un ruolo coincidente a quello svolto militarmente dai cubani, guadagnandosi l’inimicizia eterna di Henry Kissinger.

È però con la presidenza di Lula da Silva, in questo secolo, che il ruolo autonomo e globale del Brasile si afferma definitivamente. Lo scontro con George Bush nel 2005 nel vertice di Mar del Plata, mise in soffitta la pretesa statunitense dell’ALCA, l’Area di Libero Commercio delle Americhe. Questa voleva trasformare l’intera America latina in una grande area di produzione neoliberale che permettesse agli Stati Uniti di usare forza lavoro a basso costo, quella latinoamericana, per sostenere la propria competizione globale con la Cina. Come corollario gli USA avrebbero impedito qualunque prospettiva di integrazione regionale latinoamericana frustrando l’influenza come potenza regionale del Brasile stesso.

Nonostante il ruolo dei movimenti sociali e della sinistra continentale fosse fondamentale, il NO all’ALCA fu soprattutto figlio della visione di lungo periodo delle classi dirigenti brasiliane tuttora impegnate in un “nation building” che le vede (almeno su questi terreni) alleate del governo del PT e delle sinistre.

Dopo di allora il Brasile ha agito sempre da potenza regionale, difendendo con successo il Venezuela dai tentativi di destabilizzare Hugo Chávez, associandosi in forma sempre più stretta alla Rivoluzione cubana, capitanando una missione militare ad Haiti che ha causato critiche ma ha ribadito il ruolo del paese. Quindi ha blindato la tenuta democratica della Bolivia di Evo Morales, nella quale gli Stati Uniti appoggiavano il separatismo delle regioni ricche, ha osteggiato il golpe in Honduras e impedito la regionalizzazione del conflitto colombiano voluta da Álvaro Uribe, dall’interventismo militare nordamericano e dagli interessi enormi legati al narcotraffico.

Il Brasile è stato quindi un motore fondamentale del rapido processo d’integrazione latinoamericana di questo decennio. L’interscambio economico in aree come il Mercosur, che va dalla Terra del Fuoco ai Caraibi, si è moltiplicato per quattro come per quattro si è moltiplicato l’interscambio Sud-Sud con l’Africa, l’Asia, il Medio Oriente. Proprio l’integrazione regionale, descritta dal Nord come un’utopia populista, ha ridotto gli effetti sull’America latina della crisi globale, in una regione la dipendenza della quale l’aveva resa esposta per decenni ad ogni stormire d’effetti tequila. Tutto ciò è avvenuto in un contesto nel quale milioni di brasiliani sono usciti dalla povertà.

La sguaiatezza di reazioni come quella di Henry Kissinger al ruolo svolto dal Brasile di Lula a Teheran o le demonizzazioni della propaganda (si veda per tutti il pessimo Moisés Naím, Miracolo messicano, “L’Espresso”, 13 maggio 2010, che per attaccare il Brasile inventa addirittura un miracolo nella tragedia messicana) testimoniano quello che al Nord costa ammettere: il Brasile di Lula oggi non è più periferia di nessun Occidente, ma è un attore globale padrone del proprio destino e destinato ad avere un ruolo di perequazione tra Nord e Sud del mondo.