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Speciale Bolivia 1: appunti per un bilancio sul governo (riformista) dei movimenti sociali

bolivia-manifestacao [1] Il primo quadriennio di Evo Morales al governo della Bolivia ha coniugato il massimo dell’utopia al massimo del pragmatismo. A smentire tutti i paradigmi neoliberali la nazionalizzazione del settore estrattivo ha sottratto alle multinazionali la parte iniqua dei guadagni ed è servito a mettere in moto un processo di perequazione sociale finora coniugato con le esigenze di un bilancio dello stato oggi molto più brillante che all’epoca dei Chicago boys.

Tutto ciò è stato fatto cambiando (o iniziando a cambiare) lo Stato con la nuova Costituzione plurinazionale che restituisce la piena cittadinanza alla maggioranza indigena e accrescendo sempre più un consenso che assume tratti egemonici. D’altra parte, e causa qualche preoccupazione, il MAS mostra segnali di trasformarsi in un “catch all party” che supera la propria base per strizzare l’occhio a frammenti non proprio presentabili dell’opposizione.

È difficile oggi per la destra imprenditoriale attaccare il Morales che ha mantenuto la Bolivia fuori dalle secche della crisi. Se fosse intellettualmente onesto forse quell’imprudente giornalista italiano, Oscar Giannino, che definì Evo “un narcoindio fuori di testa”, dovrebbe chiedere scusa. Il CEPAL, la Commissione dell’ONU per l’economia latinoamericana, traccia bilanci più che lusinghieri su tutto il mandato. Anche il 2009 si chiuderà con un +4% di PIL (6% nel 2008). Laddove in epoca neoliberale le casse erano vuote, oggi le riserve sono stratosferiche, 10 miliardi di dollari e il debito estero (con un importante aiuto venezuelano) è in costante calo.

Non solo: durante la prima legislatura di Evo il settore manifatturiero (che rappresenta quindi diversificazione reale dell’economia rispetto ai tradizionali settori agrario, agro-industriale ed estrattivo) è cresciuto a ritmi dell’8% l’anno. L’export, incentrato soprattutto nel settore estrattivo, è cresciuto addirittura del 45%. Le multinazionali, dopo le campagne di diffamazione dovute alle nazionalizzazioni, stanno tornando, Repsol in testa, a fare affari (meno iniqui) in Bolivia. Quindi, anche visto “da destra” il bicchiere è pieno.

Ciò però non significa che anche da sinistra il bilancio non mostri segnali indubitabili di progressione. Per la prima volta c’è una Costituzione che garantisce tutti i cittadini e non solo le élite. Mezzo milione di ettari di terra sono stati distribuiti a contadini poveri e i programmi di alfabetizzazione hanno coinvolto quasi mezzo milione di cittadini. Il salario minimo è stato costantemente ritoccato verso l’alto, le condizioni dei braccianti sono state migliorate, gli anziani hanno finalmente diritto alla pensione e per la prima volta la gravidanza è accompagnata dallo Stato con assegni mensili e una serie di controlli medici pre e post parto gratuiti.

Inoltre lo Stato non si è fatto strappare dai privati il controllo sull’estrazione del litio, materia prima della quale la Bolivia possiede le prime riserve al mondo e che sta rivoluzionando la produzione di batterie nel pianeta. Addirittura 350 milioni sono stati investiti nella realizzazione di uno degli impianti di raffinazione di questa materia più avanzati al mondo, una somma impensabile fino a ieri per uno Stato fallito come quello boliviano. Infine, la Bolivia ha accompagnato tutti i passi compiuti dall’America integrazionista in politica internazionale, contro le basi statunitensi in Colombia e contro il golpe in Honduras divenendo per la prima volta un attore (sia pur minore) in politica internazionale e un simbolo dell’unità latinoamericana, delle relazioni Sud-Sud e del dialogo pacifico tra i popoli.

Va detto, che piaccia o no, che è con la valuta pregiata incassata dal settore estrattivo che il governo boliviano riesce a tenere in piedi i più meritevoli dei suoi programmi sociali, quelli che stanno riportando i bambini a scuola o stanno ridando dignità agli anziani. Bisogna perciò prendere atto che è l’equilibrio tra pragmatismo e sogno emancipatore è la chiave del successo di Evo Morales (e di tutti i governi integrazionisti latinoamericani nell’ultimo decennio).

Dietro una certa retorica rivoluzionaria e parole d’ordine come il Movimento al Socialismo o il Socialismo del XXI secolo di Hugo Chávez, si nasconde quello che in pochi, da destra come da sinistra, dall’Europa e dall’America, hanno piacere di vedere. I governi integrazionisti latinoamericani hanno riscoperto e attualizzato il senso della parola “riformismo” così come l’intendevano i vecchi socialisti figli della seconda internazionale fino a prima del cataclisma neoliberale.

Riformismo dunque come percorso verso la perequazione e la giustizia sociale e non verso la deregulation da Chicago boys come s’intende ancora oggi nella sempre più arretrata Europa. “Riformismo” che vuol dire, qui ed ora, più diritti e più garanzie per i più deboli e non mani libere per i più forti come nell’accezione (travisamento) moderna del termine.

Da lunedì Evo Morales e Álvaro García Linares dovranno dimenticare il consenso. Avranno davanti altri cinque difficili anni e forse più sapendo di camminare su di un crinale nel quale l’uso dello sviluppo industrialista deve creare benessere (e consenso immediato) ma per cambiare davvero la storia del paese e della regione tale uso deve essere finalizzato davvero alla transizione verso un nuovo modello di sviluppo. Altrimenti, come è avvenuto più volte nella storia boliviana, la retorica rivoluzionaria resterà tale e l’esclusione sarà stata solo temporaneamente alleviata.

Leggi anche: https://www.gennarocarotenuto.it/11653-speciale-elezioni-in-bolivia-2-evo-morales-dal-governo-allegemonia/ [2]e inoltre l’intervista di Gennaro Carotenuto a Evo Morales [3].